Articolo tratto dalla rivista “Nelle Valli Bolognesi” anno VI – numero 23
Testo di Michelangelo Abatantuono
Sclava, Sarcula, Garganica, Verdiga, Maiolo, Padernica… Alzi la mano chi ha mai sentito pronunciare questi nomi o chi sa che attinenza hanno con il mondo delle vigne e del vino. Per non tenervi sulle spine, si tratta di alcune delle uve che si coltivavano nel bolognese nei secoli passati: Pier de’ Crescenzi, agronomo bolognese vissuto tra Duecento eTrecento, ne elenca 21 tipi tra uve bianche e nere, indicando quelle ottime e quelle mediocri, quelle idonee o meno alla vinificazione, quelle adatte a produrre vino da invecchiamento o da bere nell’annata.
La Sclava, ad esempio, era un vitigno da uva bianca a germogliamento tardivo ma con maturazione precoce, con acini molto vinosi; era coltivata in collina, con potatura corta e dava vino sottile e chiaro, adatto all’invecchiamento. Tra le uve rosse e nere il De Crescenzi cita la Padernica, che dava un vino ottimo ma da consumare entro l’inverno, prima che i calori estivi lo rendessero guasto e acido, e la Lambrusca, uva selvatica con la quale si produceva un vino poi impiegato per i tagli. La Lambrusca nera si usava per dare colore ai vini e chiarificarli, quella bianca per purificarli e conferire lucentezza. Dell’Albana si ha notizia già nel IX secolo, in un componimento scherzoso, la Cena Cypriani: tra i convitati figurano Caino, Abele, Mosè ed altre figure della tradizione cristiana e ognuno beve il suo vino preferito. L’apostolo Giovanni bevve appunto l’Albana.
Quali caratteristiche avessero quei vini è difficile dirlo, ma è certo che avevano poco in comune con quelli che siamo abituati ad assaporare oggi: le qualità dei vitigni, le procedure di produzione, trattamento e conservazione erano, molto diverse e perciò i prodotti dovevano scostarsi non poco dalle qualità che oggi fanno eccellere un vino. Ce lo indica anche un’altra annotazione di Pier de’ Crescenzi riguardante le migliori uve da tavola, dette Pergole o Brumeste, che venivano raccolte acerbe per ottenere un vino “agresto” usato come medicinale o per fare l’aceto. Notevole interesse ha destato lo scorso anno il rinvenimento nei pressi di Marzabotto di un vitigno arcaico, ricondotto alla produzione enologica etrusca e ne è nato un progetto di recupero, ma anche in questo caso non è facile ricreare il processo di trattamento delle uve, del mosto e del vino così come usava più di duemila anni fa. Al di là delle caratteristiche organolettiche, vi sono però alcuni elementi che si mantengono lungo un arco temporale millenario, in primo luogo la sacralità del vino e il suo consumo in uso liturgico. Durante i banchetti dell’antichità era bevanda densa di simboli e legata a precisi rituali. Il suo uso continuò anche nei convivi medievali: il monaco Donizone racconta che il banchetto nuziale del marchese Bonifacio, padre di Matilde di Canossa, durò per tre mesi e si attingeva vino a due pozzi con secchie sospese a catene d’argento.
Quanto al consumo eccessivo o perlomeno smodato che se ne faceva in passato, il giurista bolognese Odofredo (XIII secolo), docente presso lo Studio ricorda che gli studenti si mantenevano morigerati per gran parte dell’anno ma, in prossimità delle festività natalizie, erano soliti ripetere: “Andiamo a comprare il vino per l’estate (perciò bianco) a Castel del Vescovo (oggi Sasso Marconi)” e così salivano alle prime propaggini dell’Appennino e si rifornivano alle case dei rustici.
Di vigne nella zona pedecollinare della valle del Samoggia si ha menzione già sul finire dell’VIII secolo e sul finire del X si trovano vigne anche a Musiano, presso Pianoro, e poi a lola, Oliveto, Monteveglio, Crespellano, San Lorenzo in Collina, Elle, Grizzana, Monte Cerere. Si tratta di tutto l’arco collinare a sud della città, dove prevaleva il vigneto specializzato a ceppo basso, con località anche della media montagna. Nel Medioevo, infatti, si producevano vino e olio anche a ‘quote oggi sconsigliabili, poiché la difficoltà e il costo dei trasporti imponeva una certa autarchia. La produzione e il commercio erano strettamente controllati: nessuno poteva vendere uva acerba o prima dell’inizio della vendemmia, giorno che veniva fissato ufficialmente negli Statuti. L’uva veniva mostata sul posto e poi portata alla cantina del proprietario in grosse botti dette castellate. Dal contado il vino giungeva in città per lo smercio, che avveniva nella curia di Sant’Ambrogio, l’attuale via de’ Pignattari sulla destra di San Petronio, sotto il controllo di particolari figure, i brentatori. Questi dovevano assaggiare il prodotto, per certificare che non fosse adulterato o di scarsa qualità, e quantificarlo tramite apposite misure vinarie (la quartarola e i suoi sottomultipli). Un altro bolognese, Paganino Bonafede, vissuto nel Trecento, ci ha lasciato un poemetto didascalico sull’agronomia, nel quale ampia parte hanno i suggerimenti sul trattamento delle vigne e del vino. Bonafede, che doveva avere esperienza diretta nelle pratiche enologiche, insegna a fare rifermentare il mosto, a rendere chiaro il vino torbido (tre chiari d’uovo, 8 once di miele, un’oncia di sale, e un po’ d’acqua per ogni corba di vino), a sanare il vino dalle muffe tramite procedimenti simili alla moderna pastorizzazione. Ma tramanda anche pratiche che oggi definiremmo poco ortodosse. Così, per fare un pregiato moscatello con un vino comune, suggeriva: Toli una brancada de fiori de sambugo sechi a l’umbra e ponila in doe corbe de vino mosto, e lassalo stare, allora vignirà vin moschatello de odore e de sapore.
Alla metà del Seicento, Vincenzo Tanara, autore di un trattato di agronomia (Economia del Cittadino in Villa), riporta che i nobili bolognesi amavano i vini toscani e francesi e, tra quelli locali, l’Albana e il Trebbiano. Era usanza allora di pigiare l’uva con piedi politi da uomini, ma mai dalle donne e poi il mosto veniva messo a fermentare con l’aggiunta di acqua.
È da questo periodo e soprattutto nei secoli successivi che si affermano i vitigni e i vini che oggi conosciamo e apprezziamo. Del Pignoletto parla il Tanara, riferendosi a Uve Pignole che erano coltivate sulle colline bolognesi, ma poco adatte alla vinificazione. Non pare infatti attendibile il riferimento ad un vino chiamato Pinus Laetus da Plinio il Vecchio (I sec. d.C.). Altri vitigni autoctoni, cioè presenti in aree geografiche delimitate, sono per le colline bolognesi il Negrettino (citato col nome di Maiolo da Pier de’ Crescenzi) che ha ancora un limitatissima produzione a Sasso Marconi. Se ne ricava un vino dolce, molto amato e beverino, un tempo considerato terapeutico poiché garantiva una proverbiale facile digestione. l’Albana Nera era coltivata nel bolognese già nel Seicento, anche se la maggior produzione avveniva in Romagna. Altri vitigni minori o autoctoni coltivati tra collina e pianura erano, infine, l’Albana bianco, il Montù bianco, I’Alionza bianco, l’Angela bianca, la Maligia bianca e la Forcella.