Pieve del Pino – La storia

 

L’ ORIGINE DELLA CHIESA

Si perde nella notte dei tempi. Il primo elenco, fortuito, dei plebanati della Diocesi di Bologna risale al 1300 e fornisce il nome di ben 28 chiese soggette alla Pieve del Pino; corrispondono alle parrocchie attuali, compresi i rispettivi oratori ora in parte scomparsi. Si andava da Sabbiuno a Monte Rumici, dal Reno al Savena compreso Rastignano e Pianoro, allora Riosto. Nei tempi più antichi si chiamò soltanto S. Ansano. E’ opinione degli studiosi che fosse antichissima; un documento del 1056, riportato dal Muratori, ne attesta per primo la sua esistenza. Si riferisce alla liberazione della schiava Clarizia da parte della contessa Willa, avvenuta nella chiesa di Musiano e officiata da Don Benzo di S. Ansano.

DEDICAZIONE A SAN ANSANO

Come mai una devozione così generalizzata in Toscana è giunta fino a noi? Il giovane evangelizzatore e Battista di Siena, di cui è compatrono, ha dato il titolo a ben due chiese contigue: sotto Brento e al Pino. I Longobardi nel 568 invadono l’Italia settentrionale, con capitale a Pavia, e nei decenni successivi quasi tutta la penisola, riducendo progressivamente 1′ influenza e il potere dell’imperatore Romano d’Oriente che governava l’Italia attraverso l’Esarca di Ravenna. Nel 727 si impadroniscono di Bologna quasi senza colpo ferire. Soltanto nel 770 ha termine il loro regno ad opera di Carlo Magno re dei Franchi. Prima di occupare Bologna, hanno per così dire aggirato 1′ Esarcato, sono giunti da sud sostando alla “guardia” (S. Luca) di Bologna. Probabilmente hanno dedicato loro le due chiese a questo santo, come hanno fatto con diverse chiese della zona con il loro santo preferito:S. Michele Arcangelo. È’ noto il loro zelo cattolico-prima erano Ariani- nel fondare chiese e monasteri.

LA PIEVE BATTESIMALE

La Pieve di S. Ansano al Pino figura nel `300 fra le 44 pievi della Diocesi di Bologna, confinante con le parrocchie direttamente dipendenti dalla Cattedrale e con il plebanati di Pontecchio, Panico, Barbarolo e Gorgognano (verso Zena). Una constatazione interessante: gran parte delle chiese della Toscana dedicate a S. Ansano portano il nome di Pieve. Ora le Pievi sono generalmente le chiese più antiche, dove si amministrava il Battesimo, si svolgevano le celebrazioni più importanti, si seppellivano i morti per tutto il plebanato. In esse l’Arciprete aveva giurisdizione vicaria, a nome del Vescovo, per tutte le parrocchie facenti capo alla Pieve. Nella nostra Pieve ciò è comprovato dal quadro dell’abside (1620) che affianca a S.Giovanni Battista, il battezzatore di Gesù, S.Ansano Battista di Siena. Le Pievi si fanno risalire al sec.IV- VI, cioè dopo che l’editto di Costantino(313) aveva concesso ai cristiani di organizzarsi pubblicamente. La nostra fede deriva dall’evangelizzazione di Ansano, portata fino a noi degli eserciti longobardi lungo la via Romana, che il console Publio Cornelio Scipione Nasica aveva fatto aprire nel 189 A.C. fra Bologna e Fiesole? Oppure deriva da S. Apollinare, primo vescovo e martire di Ravenna? S. Zama, primo vescovo di Bologna dal 313 o suo immediato successore non avrà inviato, lungo la medesima strada consolare, un manipolo di sacerdoti, in seguito chiamato capitolo di canonici, che sotto la responsabilità di un Arciprete portasse la luce del Vangelo in tutti i pagi (pagani) del futuro plebanato? Sta di fatto che al Pino esiste da secoli una vasta canonica con al centro un’ampia sala dalle pareti annerite (“scaldatorio”), in cui un collegio di presbiteri faceva vita comune, almeno a partire dal secolo XII. A ritroso dunque possiamo stabilire l’epoca in cui è sorta la Pieve di S. Ansano al Pino. Una comunità minoritaria non poteva che essere dotata di una piccola casa comune, via via rifatta o ampliata, come dimostrano gli infiniti rifacimenti e modifiche che le strutture attuali hanno dimostrato anche nei recenti restauri.
I muri perimetrali risultano tutti costruiti in pietra di arenaria, alcune delle quali-diversamente lavorate, tirate a scalpello, a punta fine o anche perfettamente squadrate come conci romanici. Nel corridoio fra la sacrestia e il presbiterio la parete interna è stata volutamente lasciata a vista a dimostrazione di quanto affermato.

L’ ANTICA CHIESA

Le fonti storiche partono dal 1056, con la “manomissio” della schiava Clarizia nella chiesa di S. Bartolomeo di Musiano, officiata dall’Arciprete Benzo di Pieve del Pino. Dal 1292 al 1389 troviamo documenti attestanti la “residenza” al Pino di personalità famose della politica e della cronaca di Bologna. Seguì una lenta decadenza tanto che l’Arcivescovo di Bologna Mons. A. Paleotti decise di erigere, il 12 giugno 1600, la chiesa di S. Giacomo di Pianoro a vicariato Foraneo e Pieve, riducendo la supremazia della Pieve del Pino a Badolo, Battidizzo, Vizzano, Ancognano, Sabbiuno e S.Andrea di Sesto. Lo stato dell’edificio sacro risentì indubbiamente di questo impoverimento. Ridotta anche come abitato – già il Calindri attesta la presenza di diversi ruderi a sud del campanile – e popolata da 376 persone ricche solo di braccia, si trovava nelle condizioni descritte a metà dell”800 dell’Aureli (“Chiese parrocchiali della Diocesi di Bologna”, vol. III, par. 34) ” Sembra ben strano che una Chiesa la quale godeva la supremazia in remotissimi tempi su ben trenta Chiese ed ora sopra sei, trovasi ridotta in oggi nel suo materiale ad uno stato straordinario di scurrilità. A questa Chiesa, che come si disse non presenta anche nell’esterno aspetto che rozzezza, si ha accesso mediante gradinata, essendosi forse abbassato il terreno anche di fronte alla sua facciata, per cui senza questo mezzo sarebbe stato impedito l’ingresso alla Chiesa il di cui pavimento di molto s’innalza sopra il circostante terreno. Né l’interno della Chiesa smentisce l’opinione che si forma dall’esterna osservazione, poiché essa è bassa, soffittata a travi, ed in stato di decadenza. Sarebbe di sufficiente grandezza, ed ha quattro Cappelle laterali arcate ed a poca profondità. Come arcata è ancora la Cappella maggiore con piccolo coro. La regge in oggi il Molto Rev. Don Giovanni Battista Vivarelli col titolo di Arciprete, nel di cui animo generoso unito a sapere potrebbe il popolo da lui governato sperare se non di vedere sorgere nuova elegante Chiesa, almeno vederla raffazzonata, se meno tristi corressero i tempi”.

UNA “FOTO” DEL 1620

A1 centro della tela del Brizzi (discepolo di Carracci). databile al 1620, che figura da allora nell’ancona dell’abside, è ritratto il complesso editizio di allora: -la chiesa appare identica a quella della stampa del 1851, meno “al suo fianco un alto a svelto campanile che sorse nel 1818 per le cure dell’allora di lei parroco M.R. Don Palmieri” (Aureli); al suo posto si nota un’esile campanile retrostante con due campane – gran segno di distinzione, visto che le chiese circostanti usavano al massimo due campanelle poste sul tetto!- La canonica pure è quella della stampa con un particolare vistoso e interessante: una torre posta al suo limite settentrionale – di essa non s’è trovata traccia negli ultimi restauri: i muri, liberati dall’intonaco, hanno evidenziato due cantonali dei quattro appartenenti alla base della torre evidentemente a pianta quadrangolare -. A che cosa serviva? Nel medio evo, specie nel periodo comunale di Bologna, tutta la montagna bolognese era disseminata di castelli e fortilizi che costituivano una rete difensiva nei punti strategici; il valico del Pino era uno di questi. Era custodito da alcuni armati ed avevano più che altro compiti di segnalazione per milizie in transito (A. Palmieri in ” La montagna Bolognese nel Medio evo” pag.38). A questo scopo, lungo l’antica via BolognaFiesole (poi declassata dall’importanza progressiva assunta, nell’alto medio evo, dalla strada “nazionale” costruita sulla riva destra del Savena) si riscontrano altri toponimi che dimostrano l’esistenza di queste torri con la medesima funzione. Sul colle di Montelungo si possono costatare i resti della “Torre” inglobati nell’attuale abitazione.elegante Chiesa, almeno vederla raffazzonata, se meno tristi corressero i tempi”.

LA DOCUMENTAZIONE DEL GRANDE CAMBIAMENTO

A lavori ultimati, il Dott. Luigi Aureli ha dovuto riprendere in mano la sua opera monumentale e apporre un’appendice al IV volume che riportiamo: “Dappoichè fu scritta l’illustrazione di questa parrocchiale si sono fatti larghi e molteplici cambiamenti per lo zelo, e in gran parte a spese dell’attuale degnissimo arciprete D. Giovanni Vivarelli. E in prima, la chiesa , meno, alcuni pochi tronchi di muro, è affatto rinnovata, giacchè venne allungata di piedi 5 alzata di piedi 12 e abbassatone il pavimento di piedi 5, i qual lavori sono stato condotti dal Sig. Giuseppe Brighenti con intelligenza, e solerzia degna di gran lode. La canonica è stata allungata nella facciata anteriore in guisa che ora invece di tre ha sei finestre, e sta rialzandosi per metterla in simmetria colla chiesa nuova. Essendosi abbassato il pavimento della parrocchiale, s’è pure abbassato lo spiazzo che le stava avanti, atterratone quel deforme casolare che vi si vedeva, così che ora il piazzale della chiesa ha acquistato grande estensione, lasciando in bella mostra l’edificio sacro, e la canonica. Siccome poi nei dintorni vari ruderi di fabbricati antichi , già rovinati lasciavano speranza di trovare del materiale per i nuovi lavori, così fu messo mano a scavare, e trovassi dalla parte del Est le rovine di un vecchio campanile; e dalla parte del sud moltissimi sassi ed altro materiale indicante essere ivi esistito molte casuccie, fra le altre una che pareva di un fabbro ferraio o di altra persona, il cui ossame trovossi scomposto fra le rovine: la quale scompostezza fa congetturare essere quel tale rimasto schiacciato per la caduta dell’edifizio, là dove 1′ ossame dei naturalmente sepolti scorgevasi composto secondo la postura onde vi sotterrano i corpi, essendosene trovato gran quantità nella esecuzione degli indicati lavori. La quale moltitudine di ossa pare dar mostra che questa parrocchiale sia antichissima, giacché non si sa che in nessun tempo sia stata popolata tanto da moltiplicare così sformatamente i sepolti da produrre tanta quantità di ossami”. N.B. Il “piede” è un’antica misura di lunghezza, pari 1\5 del “passo”, equivalente nel bolognese a cm. 38. Quindi la chiesa è stata alzata di mt. 4,56, allungata di mt. 1,90 e abbassata di mt. 1,90. L’autore ha fatto ritrarre, a stampa, la nuova Pieve del Pino, che così compare – fatto singolare – accanto all’illustrazione della Chiesa antica nello stesso testo. Lo stato precedente, che nel corso dei nostri restauri era parso evidente, è stato autorevolmente confermato.

LA PIEVE RINNOVATA

Don Vivarelli, arciprete di Pieve del Pino dal 1839, proveniva da Casa Frassione presso Pistoia; deve aver a lungo considerato e predisposto la generale ristrutturazione del complesso parrocchiale. Intanto aveva rimesso in produzione i tre poderi in dotazione della parrocchia (Loghetto, Capponara e Lastre); ne curò la stabilità delle strade che fece contornare di opere murarie. Agli inizi degli anni 1860 è partito coraggiosamente, aiutato dalla manodopera gratuita dei suoi parrocchiani. È rimasto in archivio un brogliaccio dove ogni giorno veniva annotata la generosa fatica di qualche podere della parrocchia (si faceva prima a scrivere il nome della casa piuttosto che quello di uno dei suoi numerosi inquilini!). I sassi dal fiume, la sabbia, la calce sono arrivati coi carri nostrani. Nel recente rifacimento del pavimento e nello scavo dei cunicoli di aerazione per la deumidificazione, è emerso che esisteva un unico piano di tufo, su cui poggiava sia il pavimento sia i muri laterali: hanno scavato a suon di piccone un metro di tufo (anche la Pieve era stata edificata su una collinetta, tagliata dalla strada antistante); possiamo immaginare quanta fatica, quanto entusiasmo e quanta allegria nel lavorare assieme (favorita dalle vigne di Don Giovanni). Nella sopraelevazione pure la manovalanza era locale, usando con parsimonia il materiale (le pareti esterne, tolte le lesene portanti misurano appena cm. 15 di spessore, con riutilizzo di pezzi di coppi e di mattoni). Hanno recuperato le lunghe travi in quercia delle capriate, alcune dalle quali presentano segni di precedenti utilizzi. E’ curioso constatare che nei registri dell’Amministrazione Parrocchiale, che pure annotano diligentemente la gestione di quegli anni, (sia pure perennemente in passivo) non c’è verbo sulle spese della ricostruzione della chiesa. Chi avrà pagato? Indubbiamente, assieme alla partecipazione della manodopera della comunità, il parroco ha provveduto al resto. Lo attesta l’epigrafe sulla tomba , che si è fatto scavare nel prolungamento dell’aula da lui voluto, “Salvò dalla rovina questo tempio del suo onore, dopo averlo restaurato dalle fondamenta e avergli fatto dono di un’area maggiore, la preservò dalla rovina con un legato pecuniario a sua protezione; rinnovò la canonica”. Muore santamente nel 1860, al termine dei lavori, stanco e soddisfatto. Se ora abbiamo una chiesa di interesse storico, artistico, ammirata dai numerosi visitatori, lo dobbiamo a Lui.

COLORO CHE HANNO FATTA BELLA LA PIEVE

Dopo Don Vivarelli, altre due grandi figure di parroci hanno curato l’interno del tempio.
Don Giuseppe Masi (1861-1895) ha dotato la chiesa di pavimento in formelle di cemento policromo ed il presbiterio dell’attuale pavimento in marmo, facendovi erigere, tutto a sue spese, un sontuoso altare marmoreo – le fiancate ed il doppio ordine di scaffalature sono state rimosse in ossequio alle norme di adeguamento liturgico volute dal Concilio Vaticano Il -. Alla sua cura si deve pure il dipinto della cupola, raffigurante la Gloria di S. Ansano. Dopo la sua rinuncia (1895) ha voluto che si portasse a termine per suo conto il nuovo altare, che reca la doppia lapide datata del 1904.
Nel frattempo il nuovo arciprete Don Eugenio Codecà (1896 -1920) predisponeva il suo eccezionale programma: 1904: 1 a cappella e l’altare in marmo in onore della Beata Vergine, a ricordo del 50° anniversario della proclamazione del Dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. 1905: ricostruzione del Battistero e sua decorazione (al pari di tutta la chiesa) ad opera di Flavio Bertelli (1865-1941) pittore di San Lazzaro suo amico personale. 1906: cappella e altare di S.Giuseppe, in marmo pregiato, con la bella statua del Santo opera del Graziani.
1907: ha dotato la parete absidale della pregevole “ancona” in marmo, dedicandola all’ “Augustissimo Sacramento”. L’abbellimento interno è proseguito con la cappella e l’altare in marmo dedicata al Crocefisso, con sotto l’altare la nicchia e la statua del Cristo Morto (recentemente rinchiusa). Anche là cappella dedicata a S. Antonio di Padova è stata completata, a differenza dell’altare, rimasto in cemento marmorizzato. Dopo di Lui, Don Bergamini (1921 -1932) ha fatto la sua parte, ad esempio, ha fatto costruire il nuovo pulpito che domina la parete di sinistra.

LA PIEVE FERITA

La seconda guerra mondiale ha infierito particolarmente su Pieve del Pino. La “linea gotica” che l’esercito tedesco aveva approntato, fortificando l’Appennino tosco-emiliano, ha ceduto inaspettatamente sul finire dell’estate del `44 al passo della Futa. Gli americani, seguendo – particolare interessante – il crinale dell’antica strada romana, hanno aggirato rapidamente le linee tedesche, prendendo alle spalle, uno dopo l’altro, i paesi di Bruscoli, Pian del Voglio, Montefredente e Qualto. Da Madonna dei Fornelli, proseguendo agevolmente lungo “via Romana antica”, sono passati da Cedrecchia, le Croci, monte Venere e Monzuno.
Hanno avuto inizio i giorni terribili del settembre `44. 1 tedeschi, in particolare le “S. S.” tristemente famose per la loro ferocia priva di ogni senso di umanità, hanno dovuto approntare in tutta fretta una nuova linea difensiva sull’alta collina bolognese che andava da Livergnano, Monte Adone, Monte Sole fino a Castel d’Alano; su questa “Linea Gotica” di riserva si è fermato il fronte bellico per tutto il tristissimo inverno `44 – ‘ 45. Ogni famiglia è stata costretta, in capo a pochi minuti, a lasciare la propria casa con quanto conteneva; generalmente sono “sfollati” a Bologna. Gli uomini validi, non arruolati nella Repubblica di Salò o fuggiti alla macchia per poi fare resistenza da partigiani, spesso venivano sequestrati per scavare, notte tempo, le trincee, i camminamenti e le piazzole delle artiglierie, che a lungo sono rimasti visibili anche da noi.
Anche il parroco della Pieve, Don Evangelista Masina (1941 -1965), è stato costretto ad abbandonare la sua parrocchia, lasciando alla mercè “dei Barbari e dei Barberini” la bella chiesa col ricco corredo di antichi paramenti, mobili e vasi sacri, dei quali non si sarebbe più trovato nulla (persino le canne del monumentale organo erano state trafugate … probabilmente non dai tedeschi!). 1 “Barbari”, che da tempo avevano preso possesso della canonica, hanno “installato” nella chiesa i loro grossi cavalli da tiro (per le artiglierie); i secolari cipressi che l’attorniavano sono stati “intaccati” fino al punto di rottura, per essere rovesciati, al momento della ritirata, sulla strada e creare ostacolo ai blindati alleati. Su quei cipressi ho raccolto diverse voci dagli ultimi testimoni della guerra, ora scomparsi: affermavano che che c’erano cariche esplosive sulle intaccature, nottetempo fatte sparire da ardimentosi, e sostenevano che su di esse erano stati montati travi trasversali atti a sostenere finti cannoni puntati verso sud, che una “soffiata partigiana” avrebbe permesso agli alleati di non sprecare neppure una bomba (in questo caso dovremmo esser grati per aver risparmiato la Pieve dalla sorte di quasi tutte le chiese di Sasso e Pianoro rase al suolo dai bombardamenti aerei). Per tutto quell’inverno, grossi cannoni, piazzati al di qua dell’Appennino, hanno martellato le nostre case e la nostra chiesa. Un proiettile è entrato dalla cupola ed esplodendo ha disseminato di schegge tutta la zona del presbiterio; solo sulla tela dell’abside, nell’ultimo definitivo restauro, se ne sono contate quattordici e la bella ancona di marmo mostra ancora, a una vista attenta, una grossa cicatrice ricostruita in gesso marmorizzato. Un’ altra cannonata ha centrato il campanile (cosa ben difficile!), entrando dal finestrone a sud ha sbriciolato la campana “mezzanella”, ora reca il nome di Don Masina che l’ha fatta rifondere. Dopo un’ inverno deserto e solitario, il cui silenzio “di tomba” era rotto continuamente dallo scoppio delle cannonate, arriva (finalmente o purtroppo ?!) la “liberazione”.
Ho un’esperienza personale spaventosa della notte precedente l’arrivo degli americani: avevo otto anni, “rintanati” nello scantinato della casa o nelle “catinaie” del vecchio mulino sul torrente Sambro (era la prima casa della valle), all’inizio di settembre del’ 44 siamo stati spettatori o meglio uditori di un inferno di artiglierie con relativi scoppi tremendi (per i miei timpani) dei proiettili che partivano e quelli che piovevano. Qualche cosa di simile (moltiplicato a dovere) deve essere accaduto “al Pino”; si può ancora “leggere” sui cipressi, in particolare quello più grosso che ancora si erge proprio davanti alla chiesa: è martoriato da schegge e pallottole di ogni tipo.
L’esercito di Hitler, in repentina rotta (quanti morti avrà disseminato sui nostri terreni? Un suo ufficiale era sepolto sul piazzale), quella notte “infernale” che precedeva il 22 aprile `45, non ha avuto tempo di atterrare i cipressi o di tirarsi dietro i suoi cavalli; in compenso li ha massacrati dentro alla chiesa. Lì sono rimasti in putrefazione e nessuno poteva entrare in chiesa o anche solo passare da Pieve del Pino.
Quando il Parroco è tornato ha dovuto andare a celebrare la Messa a S. Martino e là alloggiare alla meglio prima di por mano… pietosa alla bonifica della sua Pieve. Parrocchiani coraggiosi, bruciando fascine, hanno potuto asportare le carogne dei cavalli e seppellirli al limite del piazzale (abbiamo ritrovato qualcuno dei grossi ferri dei loro zoccoli).

L’ASPETTO DESOLANTE DI UNA “MERAVIGLIOSA” PIEVE

Come si sarà presentata la Pieve agli occhi sgomenti di Don Evangelista e dei primi smarriti parrocchiani, ritornati ma senza casa? I tetti massacrati, l’interno devastato (sulle statue degli evangelisti e sul petto dell’Addolorata, nella tela del Fancelli, “qualcuno” si era esercitato nel tiro a segno!), i mobili, le panche della chiesa, le ante dei confessionali antichi … andati a fuoco; gli arredi e i vasi sacri trafugati; il pavimento stesso macchiato e scheggiato; naturalmente le porte e le finestre praticamente mancanti, macerie e marciume ovunque!
Don Masina si è trovato di fronte alle desolanti rovine materiali e morali della sua parrocchia (si era creato un clima politico avverso nel quale “il contadino doveva accoppare il padrone e il sacrestano il prete”, tant’è che un pazzoide ha tentato veramente di farlo fuori col fendente di un’ accetta sulla testa dal quale egli si è salvato interponendo una sedia. Quell’attentato ha comunque segnato la sua vita tanto rendere i sui ultimi anni a Pieve del Pino stanchi ed intermittenti).

LA FATICOSA RIPRESA

Don Evangelista ha dovuto iniziare col riparare i tetti. Poteva contare solo su cipressi caduti; ha chiamato dei “segantini” miei vicini di casa, i fratelli Marzocchi, i quali ogni volta che tiravano il “segone” si imbattevano nelle schegge di ghisa che ne sgranavano i denti; hanno mandato il parroco a Bologna a comperare un pacco di lime con cui ripararli ma prima di riprendere il lavoro occorreva liberare la scheggia con l’accetta. Hanno fatto economia: in diversi punti, osservando l’assito da sotto il tetto, si ritrovano quelle tavole di spessore irregolare e non superiore al centimetro. Con le tavole migliori ha rifatto le poche panche occorrenti in chiesa. Solo lui potrebbe descrivere la sua Odissea. I poderi del Beneficio Parrocchiale, che avevano permesso ai suoi predecessori tanta munificenza nell’abbellire la chiesa parrocchiale, ora, distrutti e deserti (ha dovuto trasformare l’abitazione retrostante l’abside in stalla e fienile per il bestiame del Loghetto), non gli permettevano neppure di pagare le tasse (vedi lettere al fisco nell’archivio della parrocchia). Alla sua morte 1 a parrocchia è rimasta vacante e il beneficio è stato gestito direttamente dalla Curia. Don Abbondanti, che ha dimorato per qualche tempo in canonica, non era parroco e neppure “incardinato” in Diocesi; ha avuto il merito – da buon ex cappellano militare – di tener dietro in qualche modo alla chiesa e canonica, di fare da parroco e di aiutare i giovani del posto ad evadere dal servizio militare. Si deve alla solerzia di Don Gabriele Pallotti, che prima di me da Paderno seguiva la parrocchia, alternandosi coi Padri Deoniani; è lui che ha iniziato il restauro interno della nostra chiesa: ha commissionato al decoratore Giuliano Armaroli la revisione delle decorazioni delle quattro cappelle laterali, con la generosa collaborazione di alcune famiglie della seconda casa. A lui si deve la tinteggiatura della vota, l’adeguamento dell’altare secondo la riforma liturgica.

I GRANDI RESTAURI: GLI SPLENDORI DELLA PIEVE

In ventiquattro anni, non c’è un palmo della chiesa, del campanile, dell’oratorio, della canonica e dei tre appartamenti di proprietà della Parrocchia, che non sia stato oggetto di intervento. Dai tetti ai pavimenti, dalle pareti perimetrali agli interni. Con tutti gli impianti a norma: per la luce ed il riscaldamento, con l’acquisizione di quanto (casa Cembali e terreni retrostanti il complesso parrocchiale) era passato all’Istituto Diocesano Sostentamento Clero. E’ stato un miracolo? Può darsi! “Aiutati che il Ciel t’aiuta” hanno sempre detto i nostri vecchi cristiani.
Ci siamo imposto un lotto ogni anno con quanto comportava; autorizzazioni, organizzazione dei lavori, esecuzioni e successivamente doppia pratica in preventivo e in consuntivo, laboriosa e costosa, che nessun parroco vuole affrontare per chiedere i parchi contributi statali (essendo stato dichiarato nel frattempo tutto il complesso di interesse storico-artistico).
Abbiamo potuto contare, oltre che sulle braccia, sul contributo – sia pur modesto ma generalizzato – di chi si riconosceva nella Comunità Parrocchiale o anche solo nel paese di Pieve del Pino; inoltre nelle prestazioni gratuite di diversi professionisti, in primo luogo il Cav. Geom. Enea Gualandi (per contenere tutti i disegni, le pratiche, i computi metrici, ecc. abbiamo dovuto approntare un armadio!), dopo di lui dobbiamo esprimere corale gratitudine all’Archit. Paolo Gresleri che si è sempre assunto, gratuitamente, la responsabilità di sottoscrivere ogni pratica. Anche la consulenza puntuale dell’ Ing. Edgardo Benassi ci è sempre stata prestata gratuitamente. I membri del Consiglio Parrocchiale Affari Economici, che si sono via via succeduti, hanno svolto un ruolo indispensabile di interessamento e di incoraggiamento.
Abbiamo potuto contare sull’entrata straordinaria annuale derivante dagli introiti della Sagra di. S. Ansano, la cui riuscita costituisce merito di un centinaio di persone che hanno lavorato, con gioiosa premura, per il suo allestimento e la febbrile conduzione.
Un impegno encomiabile e prolungato va riconosciuto ai diversi responsabili di settore: i Coniugi Cavazzoni per lo stand gastronomico, la Sign.ra Lella Trigari per la Pesca ed il Sig. Maurizio Colla per il Mercatino. Ora la “nuova” Pieve ha ritrovato l’antico splendore del 1860 e dei suoi tempi d’oro, antecedenti il conflitto mondiale che l’ha devastata in tutti i sensi (quando una Comunità cristiana fiorente la popolava, assiepandosi particolarmente nelle sue occasioni tradizionali, la Festa dei Giovani per S. Antonio da Padova, quella della Compagnia del Santissimo nella seconda domenica di settembre e soprattutto la Festa di Pieve per eccellenza: le “40 ore” di Adorazione nel lunedì di Pasqua che si protraeva fino al mercoledì per dar tempo a tutti parrocchiani di fare la loro ora di adorazione). Quanto durerà a splendere? Ogni lavoro è stato preparato ed eseguito col concorso e il parere di vari esperti e portato a termine con la “garanzia” di durare a lungo.
Tuttavia sappiamo che prima o poi si deve ricominciare da capo. Inoltre ci sono imprevisti che non possono sempre accadere altrove, come i terremoti, le turbolenze atmosferiche ecc.
Per questo ci temiamo pronti, con le dovute precauzioni assicurative (costose) e un fondo, sia pur modesto, di “autoassicurazione”. Intanto metteremo mano di nuovo al campanile: alla tinteggiatura dei quattrc’ finestroni provvederà (speriamo) la prossima Sagra.
Grati al Signore e a quanti sono stati strumento della Sua Provvidenza, dobbiamo ora farci, una domanda: è sufficiente possedere un bella chiesa per affermare che siamo una bella Parrocchia? La Chiesa di Dio, di cui h Parrocchia è espressione locale, è “edificata’ con tante pietre vive quanti sono suoi membri E’ questa la Pieve – etimologicamente significa popolo (di Dio) – che siamo tuttora impegnati g restaurare; probabilmente non arriveremo mai alla fine, ma ce la mettiamo tutta!

Venturi don Luigi Parroco