Pontecchio Marconi

La Parrocchia di S.Stefano di Pontecchio e la sua chiesa

Chiesa di Pontecchio Marconi

II poeta Metastasio ha scritto: “La Terra simili a sé gli abitator produce”.
L’ambiente, inteso nella sua globalità, esercita un forte influsso sulla persona, per cui si può dire: l’ambiente fa l’uomo.
Conoscere l’ambiente in cui si vive, conoscerne i costumi, la geografia, la storia, le tradizioni ci aiuta a scoprire noi stessi, la nostra identità e quella della comunità. Pertanto esprimo compiacimento per le iniziative intraprese dal “progetto 10 righe” allo scopo di divulgare la conoscenza del nostro paese e accetto l’invito a dire qualcosa sulla parrocchia di Pontecchio e la sua chiesa: premetto che non sono uno studioso di storia locale e neppure un archivista.
Quello che scrivo è frutto della mia esperienza di parroco che nel lontano 1946 venne a Sasso Marconi, comune del quale sento di far parte, come cittadino, a tutti gli effetti. Pontecchio dal latino “ponticulum” = piccolo ponte, perché sembra che un piccolo ponte valicasse un fossatello, che rendeva più facile l’accesso alla chiesa. II piccolo ponte è divenuto “un grande ponte”, perché alla fine dell’800 Guglielmo Marconi realizzò qui l’invenzione del telegrafo senza fili, creando il grande ponte della radio, che collega le sponde più lontane del nostro globo. Marconi con la sua invenzione ha dato uno straordinario contributo alla unificazione dell’umanità, avvicinando popoli e nazioni e ha reso celebre in tutto il mondo il nostro piccolo paese.

La Parrocchia di Pontecchio ha origini remote: se ne parla la prima volta nel 1085 e la sua Pieve è ricordata espressamente nel 1300, quando aveva alle sue dipendenze ben 12 chiese.

Nel 1568 divenne “Abbazia” e fu affidata ai Canonici Lateranensi di San Giovanni in Monte che la tennero fino al 1842.
Subentrarono a questa data i Parroci: la chiesa e il convento erano in condizioni di fatiscenza.

Furono fatti lavori di consolidamento e ristrutturazione: il convento fu trasformato in canonica, divenendo abitazione del parroco; la facciata fu trasferita a levante verso la Porrettana divenuta nel frattempo strada importante che congiunge Bologna a Firenze, lungo la quale era ed anche attualmente è disseminata gran parte della popolazione. Queste trasformazioni: facciata a levante, abside a ponente sono state eseguite con criterio e nel rispetto dell’architettura originale della chiesa che risale al 1600. Anche nei lavori eseguiti di recente (anni 1985 – 1995) non si sono fatti cambiamenti, ma si è cercato di rifare le cose come erano in origine. Così è stato ripristinato il chiostro, riscoprendo i bellissimi travi in quercia; la canonica è stata dotata di servizi adatti, è stata abbellita la facciata e si è costruito ex novo il piazzale della chiesa con le scalinate in arenaria e un ampio sagrato che consente ai fedeli dopo le funzioni di rimanere in conversazione senza il pericolo di essere travolti dalle auto che diventano sempre più invadenti.

Entrando in chiesa a destra c’è la grotta di Lourdes: fu costruita negli anni ’30 a spese della famiglia Pinelli, essendo parroco il Canonico Giorgio De Maria, mio predecessore, che introdusse la consuetudine dei Pellegrinaggi al celebre santuario francese, che fu purtroppo interrotta negli anni del conflitto, ma poi fu ripresa nel dopoguerra e continua anche nei nostri giorni.

A sinistra vi è I’altare di Sant’Antonio da Padova (quadro di autore ignoto); a destra l’altare del transito di San Giuseppe (copia di un quadro del Guercino: l’originale si trova nella pinacoteca di Bologna).

Proseguendo il visitatore è colpito dalla bellezza del pavimento: una splendida veneziana di fine ‘800 che è stata più volte restaurata, perché in alcuni punti si sta scrostando causa l’umidità del terreno, ma si spera presto, usando tecniche nuove, di riuscire ad eliminarla. Nella cappella del transetto destro c’è il battistero e vi si venera una bella statua lignea della Madonna del Rosario (1700?); la comunità di Pontecchio celebra la festa di questa immagine la prima domenica di ottobre: nella sagra, oltre le funzioni in chiesa, si svolgono la pesca di beneficenza e altre iniziative il cui ricavato va a favore dell’Asilo che una volta era gestito dalle Suore e adesso è portato avanti da personale laico della Parrocchia. Nel transetto sinistro c’è una quadro dedicato a Sant’Ubaldo Vescovo di Gubbio: non è del Crespi, ma di scuola Crespiana.

La cappella maggiore è stata adattata alle esigenze della liturgia post-conciliare: l’altare in marmo è opera dell’architetto Raule, che provvide a mettere in evidenza su un piedistallo marmoreo l’antico tabernacolo nella cui porta c’è una immagine di Cristo Salvatore, opera dei fratelli Gandolfi.
II quadro dell’altare maggiore (1800) rappresenta il martirio del diacono Santo Stefano, protettore della comunità parrocchiale e titolare della chiesa: autore il Muzzi, pittore della scuola bolognese.

A lato destro della cappella maggiore in un ambiente separato è stata costruita la cappella del Crocefisso nella quale si svolgono le celebrazioni feriali o con piccoli gruppi. L’interno della chiesa è stato affrescato dal Baldi nel 1940: la decorazione è armoniosa e semplice: avrebbe bisogno di restauro!
La vetrata della facciata è opera del Gallingani (1963) e rappresenta Santo Stefano in abito diaconale: dello stesso autore le vetrate dell’abside con simboli eucaristici. Pontecchio ha oratori e castelli celebri dei quali potrebbe parlare qualcun altro più esperto di me: un piccolo gioiello è la chiesa di Montechiaro, già parrocchia e ora sussidiale di Pontecchio; restaurata di recente e riportata all’antica bellezza: nell’ampio pianoro a fianco della chiesa dedicata alle Sante Giustina e Lucia, svetta l’agile campanile di stile bolognese, contenente le antiche campane della nota fonderia Brighenti. Negli edifici parrocchiali (canonica, casa del campanaro, ecc.) rimessi a nuovo, funziona l’opera Santa Chiara che rende bella testimonianza di servizio ai fratelli in condizioni di handicap e nello stesso tempo ha un altro piccolo merito, quello di custodire quel luogo che altrimenti sarebbe destinato all’abbandono e al degrado.

Tratto dalla rivista semestrale “al sâs” N.3
edita dal gruppo di ricerca storica “DIECI RIGHE”

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