Le origini della radio

A circa quattordici chilometri da Bologna, dominava la strada di fondo valle per i bagni della Porretta il Griffone, un decoroso edificio dalle sobrie linee classicheggianti, che tuttavia, per la mentalità del tempo, doveva considerarsi più che villa, signorile casa di campagna, con rimessa, stalla, fienile e, nello spazioso sottotetto, granai e stanze per i bachi da seta, i quali, con i loro bozzoli paglierini della migliore qualità, erano stati per secoli elemento portante dell’economia locale.

La posizione è delle più indovinate. Lungo la breve salita di accesso, che si diramava dalla Porrettana, allora ancor più serpeggiante di oggi, il bosco si trasformava in un ricco parco, e questo improvvisamente si apriva per lasciare spazio, davanti e dietro alla casa, a due grandi prati. Da un lato la vista spaziava sull’ampia valle del Reno, con i suoi monti familiari, con i suoi lunghi silenzi, oppure con lo scroscio lontano delle piene impetuose del fiume. Dall’altra parte, oltre ad un immancabile vasca con fontana, il prato si trasformava in campi, e dai campi salivano ripidi i vigneti, esposti favorevolmente verso levante, con un colore diverso per ogni stagione. Al momento della vendemmia erano coperti di grappoli di uva nera e di uva bianca, e quest’ultima era in gran parte riservata per il vino della metà padronale.

In questo luogo incantevole per la sua semplicità, è nata la storia e la leggenda della radio. E oggi per ricostruire l’impresa straordinaria delle prime trasmissioni di Guglielmo Marconi, bisogna ricorrere sia all’una, sia all’altra. Che si tratti di un avvenimento di portata storica non c’è alcun dubbio; ma la documentazione è scarsissima. Se non raccogliessimo dunque anche la leggenda nata spontanea e senza malizia, dovremmo ricorrere inevitabilmente all’immaginazione, dando di questa vicenda un racconto che, non solo mancherebbe del fascino che merita, ma che sarebbe certamente ancora meno vicino al vero.

Il successo raggiunto da Marconi è al limite della credibilità. I vecchi radiotecnici (e ricorderò per tutti D.E. Ravalico) dicevano che, anche col senno di poi, era difficilissimo ripetere le prove fatte da Marconi a Pontecchio con i soli mezzi dei quali, con abilità incredibile, si valeva quel ragazzo. E tale impresa, con tali mezzi, sarebbe ancor più difficile per un elettronico dei nostri giorni. Marconi svolse la parte più intensa del suo lavoro fra la primavera e l’estate del 1895. All’inizio di maggio di quell’anno andò in visita pastorale alla Parrocchia di Pontecchio il Cardinale Domenico Svampa, nuovo Arcivescovo di Bologna, che passò una notte in quella canonica. E la leggenda vorrebbe che di buon mattino egli sia stato svegliato da un campanello elettrico, che si era messo a suonare chiuso in una cassetta di legno posta sotto il suo letto, senza che alcun filo entrasse nella stanza. E di leggende ne sono fiorite anche altre.

Ma l’impresa veramente decisiva di Marconi è stata quella di ricevere segnali perfettamente leggibili sulla striscia di carta di una stampante Morse, prima a qualche centinaio di metri, poi a un chilometro, a due e oltre, anche fra posizioni, che non erano in vista l’una dell’altra, e fra le quali non era nemmeno possibile sentire lo sparo di una fucilata. E questa non è leggenda. La prima dimostrazione ufficiale Marconi la fece a Londra, il 27 luglio 1896, dopo aver perfezionato la laboriosa e delicata presentazione della domanda di brevetto. Nel cuore della City, egli trasmise messaggi che venivano regolarmente registrati a punti e linee alla distanza di oltre un chilometro, da un normale ricevitore telegrafico, ma senza una linea, «senza fili» di collegamento. Quella prova lasciò dirigenti, impiegati e tecnici del Post Office britannico letteralmente sbalorditi. Nemmeno dalla prima pila atomica di Fermi, nemmeno dal primo allunaggio è stato suscitato tanto scalpore e, soprattutto, tanto fiducioso entusiasmo.