Capitolo 6 – I racconti e le testimonianze

Giuseppe Dall’Olio ha raccolto con pazienza e dedizione molte testimonianze su Colle Ameno: parte di questo ricchissimo patrimonio viene qui pubblicato. In particolare i ricordi di: Bruno Marchesi, Remo Neri, Silvano Bonetti, Enzo Giovanardi e Anna Pazzaglia.

Bruno Marchesi racconta

Verso la fine di ottobre o i primi di novembre del ’44, arrivarono al Colle Ameno un gruppo di prigionieri, e prima che questi entrassero nelle prigioni vennero contati e i tedeschi si accorsero che ne mancavano due, che durante il tragitto erano riusciti a scappare senza farsi notare. Allora i tedeschi presero dal gruppo due persone a caso e gli chiesero di confessare i nomi dei due prigionieri mancanti, ma non ottenendo risposta, poiché veramente non li conoscevano, un tedesco ordinò, dopo aver consegnato loro una vanga, di seguirlo, e li portò nel campo nei pressi dove è stato recentemente costruito il nuovo parcheggio e ordinò loro di scavare una buca. Ogni tanto il tedesco fermava il lavoro e chiedeva:- Chi essere i due prigionieri fuggiti?

– Non lo sappiamo, non li conosciamo. – Allora scavare! –

Questo si ripeté diverse volte. Le due buche erano quasi ultimate quando uno dei due malcapitati, ebbe un’idea geniale, e alla solita domanda gli rispose che non lo sapeva, aggiungendo però che se gli fosse stata data la possibilità di controllare, tutti i prigionieri dei prossimi giorni, li avrebbero senz’altro riconosciuti.

Si convinse: – Ya! Buona tua idea. – e li riportò alla prigione.

Dopo alcuni giorni, poiché c’era una notevole richiesta di personale per rinforzare la nuova Linea Gotica – o linea verde n° 2 – anche i due “graziati” uscirono dal Colle Ameno.

A guerra finita tornarono tutti e due a vedere le buche, che solo per puro caso non erano diventate le loro tombe. Uno era il farmacista di Vergato, l’altro un commesso del negozio di stoffe “Melloni” di Bologna.

Esecuzione sommaria

Nel mese di novembre, non ricordo il giorno, ero in camera mia al secondo piano, faceva già freddo e le finestre erano chiuse, guardai fuori e vidi tre persone che in fila indiana percorrevano il ciglio del camminamento delle postazioni antiaeree che poco più distante da casa nostra, arrivavano vicino alla casa dell’Oca di via del Chiù. Due prigionieri erano davanti e Fritz dietro.

Avevano percorso poco più della metà del camminamento, quando Fritz sparò un colpo di pistola alla nuca del prigioniero che gli stava davanti, poi uccise l’altro. Fritz rovistò nelle tasche dei due morti prima di farli rotolare dentro alla trincea, sopra ai cadaveri mise alcune assi di legno, poi col piede sano fece cadere della terra dal ciglio della trincea che coprì appena i cadaveri e ritornò alla villa.

Lo scambio

…. Un giorno arrivarono al Colle Ameno un gruppo di soldati tedeschi, che sicuramente operavano nella zona, dovevano festeggiare, e chiesero ai commilitoni di Colle Ameno se potevano dare loro una damigiana di vino. Poiché quelli di Colle Ameno avevano un prigioniero da uccidere, per avere una damigiana di vino dovettero prima uccidere il prigioniero.

Il bastone

…. Fritz, a causa del piede congelato, quando non era necessario, preferiva calzare due pantofole fatte di panno. Doveva però girare sempre appoggiandosi sul suo bastone, che usava anche per picchiare le persone.


I racconti dell’uccisione di Ilario Favallin

L’antefatto:

Verso la fine di ottobre del 44, nella mattinata, una piccola colonna di militari tedeschi lasciava la statale Porrettana per salire verso Monte Chiaro.
La colonna aveva appena oltrepassato il cimitero di Pontecchio quando vennero sorpresi da un caccia americano che, a bassa quota, mitragliò la colonna.
I soldati si buttarono nel fosso a sinistra della strada, qualcuno riuscì ad entrare nel tombino del viottolo che porta al podere San Michele. II caccia ripetè il passaggio a bassa quota, infierì ancora prima di scomparire all’orizzonte.
Fra i soldati poco più della metà rimasero illesi, morì anche una donna che si trovava di passaggio sulla strada. Si chiamava Stella e abitava ai Borghetti.

La versione di Remo Neri:

Pochi istanti dopo, arrivò sul posto Ilario Favallini che abitava alle Lastre di sopra e che svolgeva la mansione di mugnaio al Palazzo Rossi.
Era una scena desolante, soldati rimasti illesi che prestavano aiuto ai feriti, c’era chi piangeva, chi si lamentava, chi urlava dal dolore.
Ilario rimase sconvolto da quello che vide, non poteva credere alle grida di dolore che sentiva.

Dentro di se, pensò – Non può essere, quelli sono soldati tedeschi, perché si lamentano. Non è possibile; io sto impazzendo. –

La propaganda militare tedesca, le facili conquiste lampo in campo militare nei paesi europei, avevano inculcato nella mente di Ilario la netta convinzione che il soldato tedesco fosse un essere superiore incapace di sentire il dolore, la sofferenza, o di lamentarsi. In pochi attimi una profonda crisi scosse Ilario, crisi che si manifestò con ripetute risate isteriche, risate non controllate. Poi Ilario si calmò e riprese la strada di casa, che distava poco più di cento metri. Nel pomeriggio dello stesso giorno una pattuglia tedesca prelevò Ilario dalla sua abitazione per condurlo al Colle Ameno; subì un breve interrogatorio prima di essere rinchiuso in cella di isolamento.

Il giorno dopo venne legato braccia e gambe ad una sedia e sepolto vivo.

Il povero Ilario venne calato dentro una trincea, a forma uncinata, situata vicino all’ingresso della villa che guarda verso San Luca, poi tre soldati muniti di badile calarono la terra nella buca.
Fritz assistette personalmente all’esecuzione. Il corpo di Ilario era quasi sepolto, quando Fritz ordinò ai soldati di interrompere il lavoro, si avvicinò al bordo della buca e disse: – Noi mettere ancora terra su tua testa, così se tu avere ancora voglia di ridere, nessuno potrà sentire tua lurida voce. – Così, legato alla sedia, fu ritrovato dopo la guerra.

La versione di Bruno Marchesi

Marchesi era presente all’arrivo di Ilario al Colle Ameno, questi era colpevole di essere passato sul luogo del disastro senza aver prestato soccorso ai feriti. Ilario era un uomo robusto alto più di un metro e ottanta, e giunto al Colle Ameno fu preso in consegna da un sergente della gendarmeria, piccolo, molto piccolo di statura, poco più di un metro e cinquanta. Il sergente lo interrogò, poi forse perché Ilario non rispondeva alle sue domande, o forse per dargli subito una piccola punizione, cercò di dargli uno schiaffo. Tenuto conto delle due differenti stature per Ilario fu facile scansarlo, però nell’indietreggiare inciampò, perse l’equilibrio, e cadde a terra all’indietro. Allora il Sergente, rosso di rabbia, per non essere riuscito a schiaffeggiarlo, e vedendolo a terra, gli diede una violenta pedata sul viso con gli scarponi chiodati, che si stamparono sul volto, e che prese subito a sanguinare, poi fu fatto alzare e portato in prigione. Dopo la guerra fu trovato sepolto, legato mani e piedi ad una sedia.

Come si può constatare i due racconti pur diversi nei particolari e nelle sequenze degli accadimenti portano alla stessa logica di supremazia: la sola parvenza di derisione nei confronti della razza pura giustificava la morte del malcapitato.


Ferruccio Caselli

Ferruccio Caselli – classe 1927 – abitava ai Prati di Pontecchio ed aveva 17 anni quando venne prelevato dalla sua famiglia e condotto al Colle Ameno, era il 14 novembre 44. Era invalido agli arti inferiori, a causa di una poliomielite avuta da ragazzo e per camminare doveva fare uso delle stampelle.
Nei due giorni di permanenza al Colle Ameno, furono diversi i tentativi operati dal Pellegrini, dal Marchesi e da altri del gruppo di civili che lavoravano per i tedeschi e che lo conoscevano per convincere Fritz a lasciarlo libero. Caselli fu isolato dagli altri prigionieri di permanenza in quei giorni, e a tutti coloro che chiedevano clemenza Fritz rispondeva che lo avrebbero portato.
Il giorno seguente, 17 novembre 44, il Caselli non c’era più. Al mattino quando i tedeschi portarono i viveri a Giovanni Marchesi, per preparare il rancio per i prigionieri, egli ne approfittò per chiedere del Caselli. I tedeschi lo rincuorarono dicendo che l’avevano mandato in un ospedale in Germania per curare la sua infermità.
A liberazione avvenuta, su un terrapieno, fu rinvenuta una stampella del povero ragazzo.

La fuga

Nelle stanze a pianterreno della parte centrale della villa, dove vennero ammassati i civili rastrellati, si entrava dal grande cortile della chiesa. Le finestre che davano luce agli ambienti guardavano verso il fiume Reno, finestre molto alte, erano protette da ferri verticali murati in alto e in basso, che percorrevano tutta la lunghezza della finestra. Solo a metà erano intercalate da un altro ferro ad anelli che le racchiudeva e le rendeva più solide. La notte del 17 Ottobre 1944, fra i prigionieri c’erano diverse persone di Sasso e Marzabotto, fra i quali i fratelli Gìovanardi, Cevenini di Pontecchio detto “Chino”, Vasco Pasini di Bologna ed un gruppo di Marzabotto.

Cevenini era un partigiano che militava nella Brigata Autonoma Santa Justa, era molto arrabbiato ed aveva una giustificata paura. Arrabbiato con sé stesso per essersi, con la sua esperienza, lasciato “beccare” come un pivellino, paura perché se i tedeschi fossero venuti a conoscenza della sua militanza partigiana, per lui sarebbe stata la fine. Pensò di scappare. Ma come? Guardando le colline della Pieve del Pino dalle finestre, sono ben visibili i pini della Pieve. Continuando a guardare le finestre, vide la soluzione del suo problema. Le lunghe aste a protezione non erano tanto grosse e forse sarebbero bastate due persone per parte per aprirsi un varco.
Aspettò con pazienza un orario favorevole senza parlarne con nessuno, poi poco prima delle ore 2 del mattino svegliò chi dormiva e informò tutti del suo progetto. Un gruppo, fra i quali quelli di Sasso, fu d’accordo, escluso il dottor Giovanardi. Ai prigionieri che non erano della zona vennero alla meglio date alcune informazioni sulle direzioni da prendere, vennero formati gruppi di 3-4 persone ed a tutti venne raccomandata la massima calma. Due tre persone per parte a forza aprirono un varco al centro della finestra senza grandi difficoltà , poi uno alla volta fuggirono, escluso il dottor Giovanardi che fu costretto a rimanere in prigione anche a causa della sua costituzione fisica, che non gli permetteva di passare per il varco.

Mi ha poi raccontato personalmente che la sua scelta scaturì dal fatto che già troppe volte a partire dall’8 settembre 1943 la buona sorte gli aveva sempre salvato la vìta e non si sentiva di forzare ancora una volta la fortuna, come quando soldato a Milano, non venne fatto prigioniero e spedito nei campi di concentramento, perché quella notte era andato a dormire a casa di un commilitone militare milanese che abitava vicino alla caserma.

Nella fuga i residenti di Sasso furono i più avvantaggiati per la conoscenza del territorio, ma complessivamente la fuga ebbe successo, poiché quasi tutti riuscirono a lasciare il Colle Ameno senza incontrare difficoltà. Il gruppo più numeroso si portò nel fosso del Chiù e di lì un gruppetto alla volta passarono sotto il ponte della Porrettana e si dispersero nei boschi verso Monte Chiaro. Si crede che fra gli uomini evasi ci fossero anche alcuni scampati alla strage di Monte Sole e che, probabilmente a causa della loro estraneità ai luoghi, quattro di questi vennero ripresi e poi fucilati, il giorno dopo.


L’intransigenza tedesca colpiva anche i fascisti. Episodi divenuti quasi leggende fra la gente comune.

Pessinsela

Durante il periodo fascista, le cosiddette camicie nere, picchiavano, commettevano angherie di diverso tipo, spadroneggiavano poiché a loro tutto era permesso.
Anche dopo l’8 settembre del ’43, qualcuno continuò a comportarsi in questo modo.

A Tripoli di Sasso abitava un soggetto che chiamavano con il soprannome Pessinsela, piccolo e folkloristico tirapiedi dei capetti locali del partito fascista e che aveva aderito alla disperata impresa della Repubblica di Salò. Egli girava sulla Porrettana in bicicletta sempre in divisa, con la camicia nera, ed era sempre armato di un vecchio moschetto. Tutto filò liscio fino all’insediamento di Fritz al Colle Ameno.

Un giorno, durante una delle sue scorribande in bici, fu fermato al posto di blocco davanti al Colle Ameno. Scese spavaldo dalla bicicletta, fece il saluto romano, mostrò loro la sua tessera di fascista ma per tutta risposta uno dei militari gli prese la bici e la scaraventò nel campo, un secondo gli prese il moschetto dalla parte della canna e ne fece due pezzi sbattendolo in terra, poi il repubblichino, così venivano chiamati gli aderenti alla repubblica sociale di Salò, fu portato in prigione assieme agli altri civili. Destinazione Germania.

I gerarchetti

Il caso più eclatante fu quando i gendarmi tedeschi fermarono una macchina con quattro gerarchi fascisti, in divisa ed armati.
Nonostante le loro violente proteste, furono disarmati e portati in prigione, l’automobile fu portata in garage all’interno del Colle Ameno. Poiché questi quattro erano pezzi da novanta del partito fascista bolognese, altri militanti del partito avendo saputo che erano prigionieri al Colle Ameno, non vedendoli rientrare, il giorno dopo li andarono a cercare. Chiesero un incontro con Fritz per appianare l’equivoco, ma Fritz fu irremovibile. Solo il giorno seguente con l’intervento del Comandante del fascio di Bologna accompagnato da un graduato dell’esercito tedesco con lettera dell’alto comando militare germanico, Fritz fu costretto a lasciare in libertà i quattro fascisti.

Il cavallo del fascista

Peggiore sorte toccò ad un graduato dell’esercito della Repubblica di Salò che a cavallo veniva da Bologna per fare visita alla famiglia che viveva in una villa nei pressi di Medelana o delle Lagune. Venne arrestato e portato all’interno del Colle Ameno dove incontrò Fritz che, già avvisato, gli stava andando incontro (Remo Neri era presente). Fritz gli si avvicinò, lo salutò militarmente, e incominciò ad accarezzare il pelo della cavalla, poi di scatto si fermò e disse al malcapitato “tu dare a me cavalla bianca”, egli rispose che non poteva perché la cavalla era dell’esercito, ma Fritz gli ripeté la domanda.

– “Perché devo darle la cavalla che è dell’Esercito italiano, poi noi stiamo combattendo a fianco dell’Esercito tedesco”. –

Fritz, un po’ spazientito, estrasse la pistola d’ordinanza e, con un colpo quasi a bruciapelo, uccise il poveretto, poi con tono sarcastico si rivolse all’italiano morente e gli disse:

– “Visto che tu avere dato cavalla bianca.” –

Verrà sepolto in una fossa comune vicino alla chiesina assieme ad altri 6 prigionieri fucilati poche ore prima. Prima di essere sepolto gli vennero tolti anche gli stivali, che facevano gola ad un tedesco addetto ai lavori. Finita la guerra venne sepolto nel cimitero di Pontecchio.


Il racconto di Anna Pazzaglia

Sono nata nel 1933 a Fornetola, casa colonica della parrocchia di Montechiaro, sopra villa Mezzana di proprietà del Professor Neri.
Avevo solo 11 anni, ma ricordo benissimo, quando una sera come tante altre del mese di novembre del 1944 arrivarono a casa nostra alcuni soldati tedeschi che ci ordinarono di lasciare la casa, di sfollare subito, o non più tardi del mattino seguente.
Dopo aver consumato la solita misera cena i più anziani della famiglia, la nonna, mia madre e lo zio Livio, unico uomo rimasto, affrontarono il problema del come andare, cosa portare, dove andare. La nostra famiglia prima della guerra era composta da 17 persone. Al momento della partenza eravamo in 13 bambini dagli 11 mesi ad 12 anni e 8 adulti, la maggioranza donne e anziani tranne lo zio Livio.

Il mattino seguente caricammo sul biroccio tutto quello che si riuscì a sistemare, mentre Celso, un cugino del nonno, caricò sulla carriola alcuni dei bambini i quali turnavano lungo il tragitto, sopra a questi mise il figlio più piccolo e a piedi partimmo. Destinazione Bologna.

Ogni tanto mi voltavo per guardare la casa di Fornetola che diventava sempre più piccola e man mano che ci allontanavamo aumentava in me un senso di disagio e nello stesso tempo, il pensiero di andare ad abitare in città, mi dava maggior sicurezza e tanta curiosità. Non ero mai stata a Bologna. Alla Stella voltammo a sinistra sulla Porrettana, era lo zio Livio che apriva il gruppo davanti alle mucche che trainavano il biroccio, dietro tutti gli altri, in coda per ultimo Celso con la carriola.
Giunti di fronte al Colle Ameno fummo fermati dai soldati tedeschi che presidiavano la strada, controllarono le cose che erano sul carro, poi un militare ordinò a mio zio Livio di seguirlo.

Livio con i suoi 43 anni era l’unico del gruppo che entrava nella fascia a rischio, poiché, facevano prigionieri tutti gli uomini abili.

– “Komm, komm” –

Ordinò un soldato, e si avviarono verso il Colle Ameno. Un attimo di angoscia colpì i più adulti, tranne i bambini che ignari di quello che stava succedendo non dettero peso al momento, e del pericolo che correva Livio. Dopo un attimo di sgomento la moglie di mio zio prese a mano le mucche, un ultimo sguardo verso lo zio e il soldato, e riprendemmo il viaggio.

Davanti al portone di legno c’erano un caporale ed il signor Ernesto di cui non ricordo il cognome, era conosciuto come “Ernesto al partidour”. Lo chiamavano così perché quando una famiglia di contadini si divideva, oppure un figlio sposandosi lasciava la famiglia, Ernesto, che era considerato molto esperto e saggio, veniva chiamato a dividere i beni, a fare le parti e quello che decideva molto raramente veniva contestato.
Ernesto, al Colle Ameno, faceva parte di quel gruppo di civili che venivano impiegati in varie mansioni al servizio della gendarmeria. Conosceva molto bene Livio, entrambi abitavano a Pontecchio e spesse volte, prima della guerra, si trovavano all’osteria per stare insieme, per una bevuta o per una partita a briscola. Ernesto, che era un omone grande e robusto, si rivolse al tedesco graduato, gli disse che Livio era un suo amico, lo supplicò più volte di lasciarlo andare

– “Ha figli e nipoti piccoli da sfamare, anche tu in Germania hai bimbi piccoli” –

E forse fu questa ultima frase che lo convinse a lasciarlo andare. II tedesco, forse per nascondere la sua momentanea debolezza, gli diede un poderoso calcio nel sedere gridando ripetutamente:

– “Rauss – Rauss (Vai via – Vai via)”. –

A Livio quella pedata fu come una carezza e senza farselo ripetere, partì di corsa e si riunì al gruppo ancora prima che questi avesse raggiunto la strada che porta alla stazione di Pontecchio.

Uno alla volta increduli abbracciammo Livio e frettolosamente riprendemmo il cammino verso Bologna dove rimanemmo fino alla fine della guerra.

Il racconto di Gianni Pellegrini

La palla, riempita di stracci e legata con uno spago, rotolò sobbalzando verso il cancello che dal vecchio e spelacchiato cortile del Seminario immetteva in via del Porto. Il ragazzo la rincorse e si fermò quando incontrò un paio di stivali. Guardò in su e scorse un militare, uno strano militare. Portava un lungo pastrano, al collo una specie di targa fatta a mezzaluna lucida, il viso era spento e la barba lunga:

– “Tu conosce Pellecrini” –

Disse con voce aspra al ragazzo,”il parpiere” aggiunse.

– “Pellegrini! Pellegrini!” – urlò correndo verso di me il ragazzo: – “Chiede di tuo padre” -.

Era l’antivigilia del Natale del 1944. Poco più di due mesi prima mio padre, barbiere a Tripoli di S. Lorenzo vicino Sasso Marconi, classe 1896 e la grande guerra sulle spalle, insieme ad alcuni giovani del caseggiato posto sulla statale Porrettana, avevano deciso di aspettare l’avanzata degli alleati costruendosi un nascondiglio nel bosco sul versante del rio Secco che guarda verso la villa la Quiete di Mezzana.

La confidenza con quei luoghi li aveva convinti che essi fossero inaccessibili: -“Bosco fitto” dicevano.

Ben altri erano i boschi cui erano abituate le SS del Feldmaresciallo Kesselring: dopo due giorni furono svegliati da una pattuglia di SS e portati a Bologna presso le Caserme Rosse.

Era il 6 di ottobre. Il 12 si scatenò su Bologna uno dei più distruttivi bombardamenti aerei di tutta la guerra. Approfittando della confusione molti prigionieri destinati chissà dove fuggirono dove potettero. Mio padre verso la pianura, verso la casa dei miei nonni materni alla borgata delle Budrie di S. Giovanni in Persiceto. Girò di notte, nascondendosi nei campi e nutrendosi con un po’ di uva sfuggita alla vendemmia.

Restò alle Budrie per alcuni giorni ma la situazione non era per niente tranquilla. Ovunque c’erano tedeschi, quando trovavano civili li spedivano in campo di concentramento a volte li fucilavano sul posto. Così Artemio Pellegrini classe 1896 a 48 anni e mezzo decise di ritornare a casa per vedere sua moglie e suo figlio perché quell’altro di figli se ne stava già in un campo di concentramento in Austria dopo l’8 settembre del ’43.

Non riuscì a vederli in quei giorni perché la Feldgendarmerie che presidiava la Porrettana a Colle Ameno lo fermò e pensò di utilizzare la sua professione di barbiere per i gendarmi presenti. Entrò così a fare parte di un piccolo gruppo di persone che egli conosceva, molti erano suoi clienti di bottega, che per l’età ormai avanzata venivano utilizzati per i lavori di mantenimento di questa piccola compagnia di soldati tedeschi, ben conosciuta per la ferocia di alcune azioni compiute a carico delle persone fermate nel transito sulla Porrettana.

Comandava questo manipolo di guerrieri il sergente Fritz, claudicante per via di un piede congelato nella campagna di Russia. Durante i due mesi trascorsi al Colle Ameno o Ghisiliere come più frequentemente veniva chiamato allora, mio padre si occupò naturalmente delle barbe e dei capelli di quei gentiluomini, ma non poté non vedere e sentire i destini che colà si compivano.

Rischiò anche grosso, come quando avvertì un gruppo di fermati in attesa di essere mandati al fronte per portare le munizioni ai soldati, di non accusare malattie o malori, poiché la fucilazione sarebbe toccata a quegli sciagurati. Dopodichè nessuno marcò più visita e ciò insospettì i gendarmi che accusarono mio padre e gli altri serventi di quell’avviso fatto a quei poveretti.

Nel frattempo ciò che restava unita della mia famiglia, cioè io e mia madre, a seguito della impossibilità di continuare la vita a Mongardino tra le angherie delle SS ubicate al palazzo detto delle Suore, gli attacchi aerei, le cannonate provenienti dal fronte e le prime notizie che giungevano da Marzabotto, decidemmo di trasferirci a Bologna e precisamente all’interno del Seminario Arcivescovile di via dei Mille.

Tra le incombenze di Artemio ve n’era una che io a quel tempo non potevo comprendere. Per accordi presi tra le autorità militari Bologna era stata dichiarata “sperrzone”. Nessuno di noi conosceva il significato di questa parola. Sta di fatto che i tedeschi la sera non entravano entro la cerchia antica, così dopo averlo accompagnato fino alla porta Saragozza mandavano mio padre a fare il carico di “signorine” nei bordelli vicini. Le signorine venivano poi portate al Ghisiliere, dove per tutta la notte i rigidi militari della milizia nazista facevano bagordi.

Fu dunque durante una di queste “missioni” che mio padre ci venne a trovare e disse che c’era aria di ritirata e che probabilmente i tedeschi se ne sarebbero andati dal Colle Ameno. Qualche settimana dopo, poco prima di Natale, mio padre si presentò al Seminario dicendo che l’avevano mandato a casa e che una volta attestati nel nuovo posto oltre il Po, i tedeschi, se ne avessero ravvisato la necessità lo sarebbero venuti a prendere. Parola del sergente Fritz. Artemio Pellegrini aveva, anche al Seminario, messo subito a profitto il suo mestiere di barbiere ed esercitava, si fa per dire, nello stanzino del portinaio, tale Gamberini.

Così quel giorno egli stava forse aspettando clienti o più semplicemente chiacchierando quando un figlio ignaro e incosciente lo raggiunse dicendogli:

-“Babbo là fuori c’è Fritz”. –

Cosa sia passato in quel momento per la testa di mio padre io l’ho saputo solo qualche anno dopo quando ci raccontava l’episodio e soprattutto il fatto che il sergente Fritz era passato solo per salutarlo in quanto il suo reparto si sarebbe trasferito in Alto Adige.

Fritz: quante volte ho pensato a quale strano congegno della mente aveva potuto indurre un uomo colpevole di avere ordinato morti atroci, come si scoprirà alla fine della guerra, a ricordarsi di salutare un barbiere, uno tra i tanti passati fra le pagine di un immenso dramma. Forse solo la consapevolezza dell’imminente fine dell’orribile tragedia nazista poteva avere indotto quel brandello di umanità.