Capitolo 7 – Le interviste A.N.P.I

L’A.N.P.I. di Sasso Marconi dal 1945 ad oggi ha sempre ricordato i caduti, congiuntamente all’Amministrazione Comunale ha deposto ogni anno anche a Colle Ameno una corona a ricordo delle vittime.

Questo doveroso impegno si rivela però non sufficiente a radicare nella memoria collettiva quanto e perché è avvenuto, l’Associazione si è posta l’obiettivo di rendere permanente la trasmissione degli insegnamenti che da quella pagina di storia sono stati tratti. Il passare delle generazioni potrebbe rendere un lontano e fragile ricordo quello che fu il sacrificio di quegli uomini e quelle donne se non si fornissero alle nuove generazioni gli strumenti utili alla loro formazione ed alla conoscenza della storia. Occorre instancabilmente riaffermare i valori che sostennero la Resistenza e permisero all’Italia quel riscatto morale che portò alla nascita della Costituzione Repubblicana, la conquista della libertà e della pace, la necessità di solidarietà e di giustizia sociale, la difesa della democrazia che sono di una straordinaria attualità.

Le riflessioni su quanto avvenne a Colle Ameno espresse nella premessa sono il frutto di un approfondimento che è stato stimolato dai giovani, il lavoro è stato svolto insieme ai giovani del gruppo 25 Aprile, dai quali è venuta l’esigenza di capire non solo semplicemente come si svolsero i fatti ma anche di comprendere da cosa vennero prodotti, quali logiche li causarono. A questo si è accompagnato un lavoro di raccolta di testimonianze. In particolare qui di seguito si riportano alcune testimonianze di persone che passarono per Colle Ameno.

Ricordo di Arnaldo Gandolfi di un triste autunno a Colle Ameno

Nell’autunno 1944, quando il 14 novembre le truppe tedesche fecero sfollare i civili, ne approfittarono per catturare tutti gli uomini dai 14 anni in su. Purtroppo anch’io fui preso assieme a mio padre e con me diversi amici e conoscenti: Lucchi Lino, suo cugino Dino, Tulipani E., Beghelli G., Zaccaria F. e tanti altri. Ci portarono tutti a Colle Ameno.

Il sergente Fritz che controllava i documenti, essendo claudicante, si sorreggeva con un bastone nodoso e lo usava spesso però per sfogare il suo istinto bestiale sui poveri malcapitati. Ricordo che infierì senza motivo su Guglielmo, operaio della Cartiera del Maglio riducendolo piuttosto male.

Fummo ammassati in poche stanze, eravamo in qualche centinaio e non c’era spazio sufficiente per sdraiarsi. Di notte Fritz ed il caporale austriaco venivano a prelevare qualcuno e poco dopo nelle camere accanto alla nostra si sentivano dei lamenti: li torturavano e poi li uccidevano. Infatti, finita la guerra sono stati trovati diversi resti di scheletri umani nei terreni adiacenti a Colle Ameno.

Un giorno un ragazzo di San Lorenzo chiese al caporale austriaco di andare al gabinetto, quando ritornò era malconcio, sanguinava da diverse parti del corpo perché era stato picchiato a sangue. Con noi c’era anche un giovane ufficiale dell’Esercito Italiano, si chiamava Rossi ed era del Meridione, era rimasto al nord dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Purtroppo aveva l’abitudine di mostrare una foto che lo ritraeva in divisa da ufficiale, io gli consigliavo di essere più prudente visto l’odio che i tedeschi nutrivano per i “Badogliani” (Così ci definivano loro). Un giorno venne un maresciallo tedesco gli impose di mostrargli la foto (forse una spiata), vista la foto gli disse: “Tu essere ufficiale Badoglio” e giù botte e calci e ridusse il povero Rossi veramente male.

Qualche tempo dopo io, Lucchi, Tulipani, Beghelli ed altri fummo portati nella casa colonica di Padroni, vicino alla Pila di Pontecchio Marconi. Nel podere di Padroni le SS avevano installato tre batterie di cannoni calibro 88, che venivano usati da contraerea e tiri al fronte. Di notte arrivavano i camion carichi di proiettili: noi li dovevamo scaricare, erano dentro cassette di legno, tre per cassa ed erano molto pesanti.

Un pomeriggio un ricognitore aereo alleato avvistò le batterie, qualche minuto dopo le batterie vennero sottoposte ad un fitto cannoneggiamento: durò più di un’ora, distrussero qualche cannone, alcuni tedeschi morirono, ma fortunatamente noi sfollati ci salvammo tutti. Vistesi scoperte le SS dovettero trasferire con urgenza le batterie, ci portarono a Monte Chiaro, ci fecero lavorare due giorni e due notti senza mangiare né dormire, eravamo sfiniti.

Costruimmo piazzole per cannoni e bunker antiaerei. La seconda notte non vidi più Lucchi (allora diciassettenne) pensai che fosse fuggito. All’improvviso, da un bunker, sentii un tafferuglio mi affacciai all’entrata e vidi Lucchi che teneva in mano una bottiglia di liquore e un SS che cercava di strappargliela mollando calci, Lino si ribellava, aveva bevuto qualche sorso e barcollava. La SS imprecando lo portò fuori dal bunker puntandogli contro il mitra io intervenni e allungando un badile gli dissi “Prova a sbadilare, prova a sbadilare” ma Lucchi continuava ad urlare ed inveire contro la SS. Attrattì dal trambusto arrivarono altre SS fra cui un ufficiale. Parlottarono tra di loro e capii che per Lucchi si metteva male. Infatti il mio timore si avverò, gli misero un badile in spalla e accompagnato da un SS armato di mitra, nel buio pesto e piovigginoso di una notte di novembre, si inoltrarono nei campi. Pensai che per Lucchi era finita, infatti si sentì uno sparo. Quando il tedesco che aveva accompagnato Lucchi tornò gli chiesi “Camarat mio amico Kaputt?” “Nein, nein, vec, essere scappato”. Spesso gli facevo la stessa domanda e ricevevo la stessa risposta. Per fortuna era sincero perché a guerra finita io e Lucchi ci siamo ritrovati”.

Dall’intervista ad Arnaldo Gandolfi

Arnaldo Gandolfi (classe 1925) nato a Sasso Marconi il 25.07.1925. Nel periodo dell’occupazione nazista organizzò assieme ad altri giovani, tra cui i cugini Lino e Dino Lucchi, una squadra d’azione patriottica (S.A.P.). Operava come staffetta nel Comune di Sasso Marconi rifornendo di viveri e medicinali il gruppo di partigiani della Brigata Santa Justa e svolgeva un’importante azione di propaganda alla lotta partigiana con coraggiose iniziative di diffusione di volantini e manifesti inneggianti alla Resistenza.

Gandolfi ricorda un particolare episodio accaduto alla cartiera (della Lama) che lo vide protagonista. Una mattina si era presentato ai cancelli della cartiera con un’ora di anticipo sull’orario di apertura con il proposito di affiggere un manifesto antifascista alla bacheca della fabbrica. Elusa la sorveglianza del custode si era introdotto all’interno a compiere la sua “eroica” azione.

Nel novembre del ’44, quando venne impartito l’ordine di sfollare, Arnaldo e la sua famiglia si misero in cammino verso Bologna. Arrivati a Pontecchio, nei pressi dei Borghetti la famiglia decide di dividersi poiché viene a conoscenza dell’esistenza di un posto di blocco che i nazisti avevano collocato all’altezza di Colle Ameno. Gandolfi e il padre presero la via dei campi seguendo il percorso della ferrovia, ma giunti in prossimità della Pila furono fermati da una pattuglia di soldati tedeschi e portati a Colle Ameno. Arnaldo rimase rinchiuso a Colle Ameno per soli tre giorni, ma ebbe modo ugualmente di assistere ad episodi di violenza efferata che vedevano come protagonista il sergente Fritz, comandante del campo.

Di notte i tedeschi prelevavano casualmente alcune persone dallo stanzone in cui i prigionieri erano ammucchiati in circa duecento/trecento, dopodiché si udivano lamenti e regolarmente questi ultimi non facevano più ritorno. Inoltre all’interno del campo i tedeschi portavano spesso ragazze del luogo che costringevano a subire ogni sorta di violenza.

II terzo giorno quando i tedeschi richiesero manodopera da utilizzare al fronte, Arnaldo sfruttò subito l’occasione per uscire. In un primo momento fu portato a Montechiaro, per costruire piazzole per cannoni e bunker, successivamente fu trasferito in prima linea al fronte a Sperticano. Qui conobbe un ragazzo di Badolo di nome Commissari e assieme a altri due uomini di Monte San Pietro decisero di organizzare una fuga.

Una notte i quattro scapparono seguendo il corso del fiume Reno, guidati da Arnaldo che aveva un’ottima conoscenza del percorso del fiume grazie alle innumerevoli giornate trascorse a pescare. Quando giunsero nei pressi di Borgonuovo, i quattro fuggiaschi si separano: i due di Monte San Pietro prendono la strada di casa, mentre Gandolfi e Commissari proseguono verso Casalecchio. Lungo la strada incontrano la famiglia Laffi che Arnaldo conosceva bene in quanto abitavano a Paganino; avvertiti dell’esistenza di un posto di blocco nazista al cavalcavia di Casalecchio e consci di essere senza documenti d’identità decisero ugualmente di tentare la sorte: grazie al cielo passano indenni il posto di blocco senza che i tedeschi decidessero di fermarli

Giunti alla Croce di Casalecchio si trovarono davanti ad un altro mondo: salirono sul tram fino a piazza Malpighi. Qui Arnaldo incontrava l’amico Tulipani Ernesto, che lo mise in contatto con i genitori. II 25 aprile del 1944 Arnaldo era di nuovo a tavola con la propria famiglia.

Dal colloquio con la Famiglia Bonetti

Leone e Silvano Bonetti si trovavano a Marzabotto quando, dopo la strage di Monte Sole, fu emanato dall’esercito tedesco un proclama che chiamava tutti gli uomini in età adulta a presentarsi a loro entro brevissimo tempo per un controllo di documenti. La minaccia che accompagnava questa ingiunzione era che se fossero stati trovati uomini che non si erano presentati dopo il giorno 5 ottobre costoro sarebbero stati fucilati.

Leone si presentò col figlio maggiore Silvano la sera indicata, come molti altri, lasciando a casa l’altro figlio Romano e la moglie. Non fu controllato alcun documento, e tutti gli uomini furono rastrellati e portati via. Il numeroso gruppo fu condotto verso valle, e si fermò la notte a dormire a Sasso Marconi presso l’acquedotto. Il giorno successivo raggiunsero Borgo Panigale, erano sotto il controllo di un ufficiale della Todt, organizzazione che li usava per approntare trincee e fortificazioni. Alcuni uomini tentarono la fuga, ma non Silvano, che parlava bene la lingua tedesca, e che si sentì obbligato a restare dal fatto che molti dei suoi compagni e concittadini l’avevano preso come punto di riferimento e guida. Alcuni di questi, peraltro, avevano con sé la famiglia.

Dalla periferia di Bologna il gruppo fu progressivamente fatto spostare verso la bassa modenese. Silvano era molto preoccupato per il padre, che non era uso a lavori manuali così pesanti ed aveva già superato i cinquant’anni, così decise di far pressione sul tenente tedesco che li comandava perché potesse far ritorno a casa dalla moglie e dal figlio minore, garantendo che lui sarebbe rimasto a prestare il suo servizio lavorativo e come interprete. L’ufficiale accettò la proposta e fornì un salvacondotto a Leone per ritornare dai congiunti.

A Marzabotto intanto nella casa di famiglia si era insediata un’infermeria militare tedesca diretta da un ufficiale medico, e la situazione si faceva sempre più difficile. Leone si incamminò per tornare indietro ma lungo la strada fu nuovamente fermato dalla polizia militare tedesca che aveva un posto di blocco sul tratto della via Porrettana antistante il Borgo di Colle Ameno. Forte del suo permesso non si preoccupò dell’intoppo, ma i militari non tennero in considerazione il documento firmato dall’ufficiale della Todt e lo imprigionarono nel Borgo come tutti gli altri.

Silvano, ancora con i tedeschi dalle parti di Modena, chiese più volte se qualcuno potesse fornirgli notizie del padre, ma non ne ottenne. Poco tempo prima della Liberazione anch’egli decise di tentare la fuga, e riuscì a raggiungere la famiglia nel frattempo sfollata a Bologna.

Furono fatte molte ricerche per trovare Leone, ma sembrava che nessuno sapesse nulla della sua sorte: i figli chiesero a più persone a Pontecchio ma non ottennero informazioni.

A guerra finita, dopo il ritorno di parte degli sfollati da Bologna furono ritrovate ed aperte le fosse nel parco e nei campi della Villa Ghisilieri di Colle Ameno. Il corpo di Leone, ancora parzialmente riconoscibile, fu ritrovato in una di queste buche assieme a quelli di altri cinque compaesani, Lazzari, Rubini, Vicinelli, Mattarozzi e Beccari. Nel tacco di una scarpa i figli trovarono le mille lire che Leone aveva preso con sé prima di uscire di casa il 5 ottobre dell’anno prima.

Nerino Zani

Nato a Pianoro in data 24.11.1918. Nel 1944 aveva 25 anni e abitava, con la sua famiglia, presso la casa di un contadino in Gloria sulle colline di Sasso Marconi sopra Castello. Durante la guerra era arruolato nell’esercito e prestava la sua attività presso il mulino militare a Casaralta.

Nel novembre del 1944, quando i tedeschi intimarono l’ordine di sfollamento, Zani decise di trasferirsi a Bologna assieme alla sua famiglia. Mentre scendeva verso Bologna, lungo la via Porrettana, venne fermato assieme ad altri sfollati ad un posto di blocco che i tedeschi avevano attrezzato all’altezza di Colle Ameno. Lui e tutti gli uomini fermati vennero catturati e portati dentro alla villa del Ghisiliere. Qui i prigionieri furono rinchiusi dentro una stanza. Zani ricorda che le persone erano talmente ammassate che diventava faticoso riuscire a respirare.

La permanenza di Zani a Colle Ameno è durata il giorno dell’arresto e la notte, ma anche se breve fu una permanenza sufficiente a conoscere i metodi violenti usati dal sergente Fritz. La mattina seguente la cattura Zani, incolonnato assieme agli altri prigionieri, venne condotto dai tedeschi a piedi verso Bologna. Prima di lasciare Colle Ameno, i tedeschi fecero mettere in fila tutti i prigionieri, e il sergente Fritz chiese se tra di loro vi era qualche malato. Zani ricorda che si fece avanti un soldato italiano fatto prigioniero nello sbarco di Anzio, e che Fritz lo percosse colpendolo con schiaffi sulla faccia. Oltre al soldato si dichiarò malato un invalido con una stampella conosciuto con il nome o il soprannome di “zoppo di Calari” (era un contadino che abitava vicino a Colle Ameno). Alla vista dell’invalido Fritz pronunciò le seguenti parole “Tu stare lì che fra dieci minuti io guarire te”. Sulla sorte dello zoppo Zani racconta di aver saputo che dopo la loro partenza egli venne fucilato da Fritz.

Giunti a Bologna i tedeschi portarono i prigionieri alla caserma dell’artiglieria sita nei pressi di porta d’Azeglio. Anche in questo luogo i prigionieri furono richiusi dentro uno stanzone, ove furono compiute le operazioni di identificazione e di registrazione dei reclusi. Zani ricorda come riuscì a farsi liberare dal comandante della suddetta caserma in cambio della promessa di portare diverse bottiglie di vino. Fino alla liberazione Zani rimase a Bologna con la propria famiglia in via d’Azeglio. L’intervistato racconta che con l’aiuto della Croce rossa lui e un suo cugino di Casalecchio avevano costruito un mulino a macine nei locali della caserma dei carabinieri, dove macinavano il grano per la gente di Bologna.

Vasco Pasini

Nel 1944 aveva 19 anni ed era di Bologna. Si presentò all’arruolamento dei repubblichini e fece il corso di addestramento. Dopo un paio di mesi di piccone e badile, a supporto di una compagnia tedesca al fronte, insieme ad altri scappò. Raggiunse il padre, la matrigna e la famiglia della sorella sfollati a Cà Fortuzzi di Mongardino.

Non potendo rimanere con gli altri civili perché avrebbe corso il pericolo di essere preso dai nazifascisti e nello stesso tempo non sentendosi pronto alla scelta verso l’ignoto nel movimento partigiano, con sei, sette compagni fra i quali gli amici fratelli Giovanardi e Mattioli Natalino si nascose in un rifugio nel bosco. I familiari andavano a portare loro i viveri.

Accadde che una pattuglia tedesca probabilmente seguendo il sentiero formatosi per il calpestio li trovò e li portò a Cà Fortuzzi, le richieste dei familiari in lacrime non servirono a nulla e furono portati a Casa Suore di Mongardino sede di un comando SS. Dopo un giorno o due a piedi furono condotti a Colle Ameno dove vennero sistemati in un affollato camerone con il pavimento coperto di paglia. Stanco Pasini si addormentò e quando nella notte venne svegliato da un altro prigioniero che lo informò della volontà di un gruppo di tentare l’evasione non volle lasciare il giaciglio.

Il mattino successivo i rastrellatii vennero incolonnati per il trasferimento verso Bologna, Pasini ricorda di qualcuno che gli disse “vedi quello zoppo lì, dice che è terribile, è un assassino ha ammazzato tanta di quella gente”.

Durante il tragitto verso Bologna pensava che lo aspettasse la deportazione nei campi di lavoro in Germania, quando all’altezza di Borgonuovo la colonna fu fermata da un mezzo tedesco proveniente da Sasso Marconi. Li misero in fila per passarli in rassegna indicando: “Tu fuori, tu fuori ….” mandandoli dall’altro lato della strada.

In quel momento la grande paura fu che stessero scegliendo le vittime per una rappresaglia, poi si accorse che i prescelti erano i più giovani e robusti con le scarpe in buone condizioni. Anche lui venne selezionato e la nuova colonna fece dietro front e raggiunse a piedi le pendici di Monte Adone. La notte la passarono in un casolare alle pendici della montagna. La stessa notte una squadra di sei lui compreso, insieme ad un altro gruppo addetto al trasporto di munizioni, vennero destinati alla funzione di barellieri portaferiti.

Raggiunsero le trincee della linea Gotica e per quaranta giorni supportarono l’ufficiale medico tedesco negli interventi e per il trasporto dei feriti verso valle dove i feriti avrebbero raggiunto con una ambulanza l’ospedale militare di Palazzo Rossi. Quando la truppa tedesca ricevette il cambio anche loro vennero sostituiti e Pasini tornò a Colle Ameno.

Nel camerone di Colle Ameno trovò il padre appena rastrellato, il quale per cercare di sostenere economicamente la famiglia era andato a fare il facchino verso la città e lungo la strada fu fermato. Il giorno seguente una nuova lunga fila di prigionieri viene diretta verso Vignola, dopo alcuni giorni di attesa i più anziani, fra cui il padre di Pasini, vennero autorizzati a rientrare in città. La successiva destinazione fu verso Rovigo dove i civili residenti li sfamarono. Questo ricordo che evidenzia la grande umanità e solidarietà nei momenti difficili colpì molto Pasini. Infatti un giorno un civile che passò lungo la strada si fermò a parlare con un tedesco e dopo un cenno affermativo ripartì per tornare dopo alcune ore con la gerla colma di pane. Era andato in paese, aveva avvisato la popolazione che c’erano dei poveri disgraziati affamati, e decisero di portare loro il pane privandosene.

Vasco Pasini ha scritto un bellissimo diario di quanto gli accadde in quel periodo noi abbiamo qui riportato solo il resoconto da una intervista che aveva come oggetto il suo passaggio al Colle Ameno.

Enzo Giovanardi

Enzo Giovanardi venne rastrellato a Mongardino dai nazisti insieme al fratello e ad altri quattro o cinque uomini nascosti in un rifugio in un bosco di castagni che guardava verso la valle Olivetta.
Dal piccolo foro d’ingresso del rifugio quel giorno non arrivò una delle donne che portava loro i viveri ma la canna di un fucile tedesco. Vennero condotti prima in località Suore di Mongardino sede di un comando SS e poi a Colle Ameno.

Rinchiuso nel camerone insieme ad altri 200 persone vi passò la notte in cui si compì l’evasione alla quale non partecipò sia per l’impossibilità di attraversare la stretta feritoia che per non voler sfidare una sorte che fino a quel giorno si era dimostrata con lui magnanima.

Il mattino successivo i tedeschi incolonnarono gli uomini e li diressero lungo la Porrettana verso Bologna. All’altezza della scuola di Modiano a Borgonuovo arrivarono due piccoli mezzi anfibi, militari tedeschi schierarono i prigionieri contro ad un muro e Giovanardi pensò ad una fucilazione per rappresaglia, ma i soldati tedeschi stavano cercando uomini con buona prestanza fisica da aggregare alla Todt. Fu fra questi, li condussero nuovamente verso Sasso poi verso Vado, qualcuno cercò di fuggire ed i tedeschi spararono. In località Casalino per la prima volta vide la tragedia della guerra nei corpi in via di decomposizione di una mamma con il suo bambino al collo.

Salirono lungo la via Branchicciolo per raggiungere Monte Adone, fino ai Piani, di notte trasportavano casse di munizioni dalla via Val di Setta alle trincee a Monte Adone. Sfinito dalla fatica dopo alcuni giorni si prestò insieme ad altri 5 prigionieri per svolgere il lavoro di portaferiti che fece per circa 40 giorni. Contrasse il tifo e venne trasportato a valle dai suoi compagni e successivamente con un mezzo di trasporto all’ospedale militare di Palazzo Rossi.

Passò poi all’ospedale di via Garibaldi, a Bologna dove ritrovò la famiglia lì sfollata. II padre preoccupato per la sorte del figlio verso il febbraio cercò clemenza al comando della RSI di via Saragozza nel timore che potesse essere considerato disertore. II graduato che lo ricevette cercò la scheda di Enzo e disse al padre che il giovane era stato condannato a morte dal tribunale militare della RSI.

La famiglia sfollata abitava in angusti locali di via Arienti, Enzo nel timore di delazioni, per non farsi vedere nemmeno dai vicini, rimase sdraiato fra i nonni malati fino al 21 aprile.

Bruno Marchesi

Riportiamo il resoconto dell’intervista a Bruno Marchesi anche se gli episodi descritti fanno parte anche delle testimonianze raccolte da Dall’Olio, perché Bruno Marchesi è una fonte eccezionale avendo da ragazzino vissuto la quotidianità di quell’incubo per tutto il periodo della sua durata e i racconti offrono comunque piccole interessanti sfumature.

Bruno Marchesi ha sempre vissuto a Colle Ameno, suo padre Giovanni era il custode della villa Ghisilieri. Quando arrivarono i soldati tedeschi della Feldgendarmerie nell’ottobre 1943 era appena un ragazzino, ma ricorda molti particolari delle vicende succedutesi durante l’anno di permanenza delle truppe d’occupazione.

I tedeschi insediarono il loro comando nella parte anteriore di villa Davia, nella parte sud del borgo. I militari in permanenza in quella sede erano una ventina. Poco dopo l’8 settembre Marchesi ricorda il passaggio di un gruppo di soldati diretti a nord, verso Verona, di circa 300 unità. Assieme al comando si insediò un reparto di MM, l’infermeria militare da campo dei tedeschi, che aveva un’altra grossa base al castello dei Rossi. Nella corte maggiore della villa Ghisilieri avevano messo a terra una croce composta da sassi dipinti di rosso, contornate da sassi di fiume bianchi, simbolo della Croce rossa, per evitare bombardamenti e gli attacchi della contraerea alleata. Il Borgo durante tutta la guerra fu colpito solamente da un ordigno aereo, che scoppiò nella corte della chiesa, provocando la morte del nonno di Bruno, colpito da una scheggia.

Marchesi ci racconta di quando vide un’esecuzione da parte di Fritz, il Sergente Maggiore che era a capo della pattuglia. Nei campi attorno al Borgo era stata predisposta una serie di paramine e di fronte a questi si erano formate molte buche a causa degli ordigni esplosi. Fritz, che era claudicante e si appoggiava ad un bastone, si diresse verso una di queste buche nel prato a sud tenendo sotto la minaccia della pistola due prigionieri, poi li fece disporre sul bordo dell’affossamento e sparò alla nuca di entrambi. Dopo che furono caduti si chinò su di loro e gli rivoltò le tasche. Marchesi vide tutta la scena dalla finestra del piano più alto di casa, dopo che aveva sentito il padre essere informato di ciò che stava avvenendo da Artemio Pellegrini, che i soldati tenevano tra i prigionieri per far loro da barbiere. II ragazzo si meravigliò che i due poveretti non tentassero di reagire: forse avrebbero avuto qualche speranza, vista la menomazione fisica di Fritz.

I tedeschi non avevano un occhio di riguardo nemmeno per gli italiani che stavano dalla loro parte: un giorno fermarono un repubblichino di Tripoli, detto Pessinsèla, che si vantava molto delle sue conoscenze, e gli requisirono il moschetto e la bicicletta.

I prigionieri erano tenuti ammassati in un locale retrostante il comando protetto da inferriate, un gruppo di essi riuscì a fuggire di notte allargandole, senza che i carcerieri si accorgessero di nulla. La famiglia Marchesi, ad eccezione del padre Giovanni, che gli invasori trattennero a loro servizio, sfollò a Bologna come tutte le altre famiglie alla fine di novembre del 1944, trovando sistemazione presso i Conti Salina, in via Barberia 13.

Testimonianza di O. Costa ex operaio dell’acquedotto del Setta

… riferirò alcuni episodi: un giorno ci misero al muro e ci lasciarono con le braccia alzate per molte ore. Poi, dopo alcuni giorni, ci rinchiusero in una stalla, ed anche qui restammo una giornata.
Successivamente fummo deportati a Colle Ameno di Pontecchio…