Dai primi giorni di ottobre del 1944 sino alla seconda decade dello stesso mese, piovve giorno e notte, sempre senza interruzioni, rendendo impraticabili i percorsi lungo le cavedagne e nei boschi.
In quell’ottobre maledetto mi trovavo prigioniero, acquartierato, assieme ad altri trentacinque – quaranta sfortunati, in uno scantinato del podere “Piani” situato sulla camionabile Val di Setta in corrispondenza dell’imbocco del “Fosso dei Carbonari”; ero arrivato qui dopo una serie di incredibili e romanzesche peripezie. In questa base logistica, situata nella più immediata retrovia, io attendevo, giorno per giorno, (tra una pessimistica, catastrofica previsione ed una vigorosa grattata scaccia pidocchi) che i nostri carcerieri, in quel momento targati Wermacht, designassero la squadra (otto – dieci uomini) scelta per la notturna risalita a1 fronte. Eravamo i muli adibiti al trasporto delle munizioni e delle razioni viveri che avrebbero dovuto alimentare le esigenze di una super valutata, ma in effetti fatiscente, linea difensiva enfaticamente chiamata “Linea Gotica”. Quella lunga tormentosa attesa diurna era , di per sé stessa, un inenarrabile, angoscioso supplizio. Tornando al discorso delle condizioni metereologiche vi assicuro che peggiori di così non potevano essere. Le piogge diluvianti dei giorni precedenti e che, purtroppo non erano cessate completamente, avevano ridotto il tratto Piani – Linea Gotica ad una autentica pista di fango, quasi non bastassero le già impossibili difficoltà altimetriche del percorso. Per mia fortuna affrontai una sola volta quella faticosissima, melmosa, rischiosa salita, e debbo aggiungere, ad onore del vero, che la soma assegnatami non fu certamente proibitiva, trattandosi di un grosso zaino contenente 39 razioni di viveri a secco. Voi vi chiederete “perché proprio trentanove razioni?”. Presto spiegato. Posso assicurare che nel tratto di “Linea Gotica” che intercorre tra Brento e Monterumici (poco meno di tre chilometri) io, personalmente, nella notte tra i113 e il 14 ottobre, (scortato da un graduato tedesco), passando di buca in buca, di trincea in trincea, consegnai ai soldati appostati, le razioni di viveri a secco contenute nello zainone che portavo a tracolla. Terminato, verso l’alba, il giro delle consegne nel fondo dello zaino era rimasta una piccola parte (3 o 4 razioni) del contenuto che mi sentii autorizzato a dividere con i miei compagni.
Tutto ciò per affermare che fu una libera scelta dei comandi alleati quella di fermarsi sulla sponda destra del fiume Savena, per assicurarsi uno svernamento tranquillo e sicuro, dato che i tedeschi avevano quasi completamente sguarnito le prime linee. Chi tra noi aveva auspicato e previsto un rapido passaggio del fronte, rimase profondamente deluso.
A quel tempo avevo un’ancor fresca dimestichezza con la lingua tedesca in virtù di abbastanza recenti reminiscenze scolastiche. Sfruttando questa vantaggiosa conoscenza linguistica venni a sapere che si cercava personale italiano per un impiego particolare. Si trattava di integrare e rafforzare “l’équipe” dell’ospedaletto da campo allestito in località “Casarola di Sotto” (a mezza strada fra il fiume Setta e “Casa Mazza di Monterumici”) fulcro difensivo della “Linea Gotica” in quel settore del fronte. La qualifica dei prescelti (tra i quali c’ero anch’io perché era stata accolta la mia specifica richiesta di far parte di questo gruppo) era quella di porta-feriti in appoggio esterno al personale dell’ospedaletto. “L’équipe” dell’ospedaletto comprendeva un chirurgo, un infermiere ed un inserviente buono a tutti gli usi. Il chirurgo era un ineffabile maggiore medico, bestiale nei modi e negli interventi (un vero macellaio) perennemente ubriaco. L’infermiere taciturno, inavvicinabile e sprezzante nei nostri confronti ed in possesso di un sacco di juta colmo di ori e gioielli arraffati in Garfagnana durante la repressione dei moti partigiani da parte delle S.S. in quella zona operativa. L’inserviente, abbastanza abbordabile, ma sospettoso e sempre indagante sul nostro passato.
Secondo me (era da poco trascorso il periodo dell’eccidio di Marzabotto) aveva un terrore viscerale dei partigiani ai quali faceva sempre riferimento nella sua ostinata e reiterata ricerca di notizie.
La nuova sistemazione a”Casarola di Sotto” era certamente più rischiosa ma, perlomeno, mi esautorava dall’obbligo di scannarmi in ascese al limite della resistenza umana. A quell’epoca ero iscritto al IV anno di Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bologna (anche se da un anno, per ovvie ragioni, non frequentavo i corsi regolari). Questo particolare, incautamente rivelato, mi valse, da parte dell’inserviente curioso (solo con lui potevamo avere contatti) l’appellativo di “Doktor”. Questa qualifica, generosamente elargitami dal “crucco” curioso, mi permetteva di accedere, unico tra i collaboratori, alla “Sala Operatoria” (un profondo, buio e ammuffito scantinato ben protetto da robusti, ciclopici muri perimetrali. Il mio impiego in “Sala Operatoria” era assai modesto e consisteva nell’accensione del fuoco e nel portare ad ebollizione un paiolo di acqua piovana direttamente prelevata da un pozzo inquinato e maleodorante, per poi immergervi i ferri chirurgici per una sterilizzazione dubbiosamente asettica. In questa sala operatoria imperversava il sopra citato maggiore medico che demoliva arti, o parti di essi, su di un rustico tavolaccio indegno di figurare nella più sporca e malfamata taverna. Ho assistito durante la mia frequenza in “Sala operatoria” a cruente mutilazioni ma non ricordo che mai si sia fatto ricorso ad anestetico di sorta, neppure localmente. Tutt’al più si concedeva al macellando una sorsata di un ingrediente ad altissimo grado alcolico (lo stesso che serviva all’esimio chirurgo per mantenersi sempre ad un livello di tasso alcolico super potenziato); privilegio quello della sorsata non a tutti concesso. La mia permanenza a”Casarola di Sotto” fu breve: colpito da febbre tifoidea, fui “generosamente” trasportato all’ospedale militare tedesco al Palazzo Rossi di Pontecchio. Conmpagni di questa dura esperienza, residenti a Sasso Marconi, furono: Vasco Pasini, Mario Pesci, Giorgio Frabetti, Degli Esposti, e un sesto compagno di cui a stento ricordo la fisionomia.
Dott. Enzo Giovanardi